Tra i diversi meriti del nuovo libro di Emanuele Ferragina, coadiuvato da Alessandro Arrigoni, (La Maggioranza Invisibile, Edizioni Bur) ve ne è uno eminentemente politico: la divisione della società italiana in due campi e loro rispettiva denominazione. La questione non è banale: mentre la dicotomia dà linfa alla politica costruendo una nuova idea di popolo (e del suo avversario), l’importanza dell’attribuzione dei nomi radica nella capacità di articolazione di soggetti sociali eterogenei, la cui unità è frutto di un’operazione discorsiva. In altre parole, il saggio di Ferragina – in realtà un trattato da collocare per lo più nel terreno della sociologia economica – è performativo, cioè produttore esso stesso di categorie contrapposte attraverso cui analizzare la società odierna, grazie alla messa a fuoco della somiglianza di interessi tra soggetti differenti.

la maggioranza invisibile

I due poli antagonisti che Ferragina traccia sono quelli della maggioranza invisibile da una parte e quello dei garantiti e dei neoliberisti dall’altra. La maggioranza invisibile, composta da precari, disoccupati, neet, migranti e pensionati meno abbienti, è quel gran blocco sociale – stimato da Ferragina intorno ai 25 milioni di persone – che emerge dalla transizione dal sistema di produzione fordista a quello post-fordista. Si tratta di coloro che l’attuale welfare ignora palesemente, orfani di rappresentanza politica e sindacale e vittime di un neoliberismo selettivo, che fa gli interessi delle élite economiche senza colpire però chi riesce a “garantirsi” ingiustamente trattamenti d’oro.

Il libro, come detto, è politico tout court, nel senso che fornisce senza mezzi termini una piattaforma analitica che ha di per sé una vocazione al cambiamento dello status quo. Ferragina si guarda bene dall’imitare quei ricercatori delle scienze sociali che presentano le proprie analisi come risultati neutri privi di orientamento politico. Seppur ancorato a solidi dati empirici, quella di Ferragina non è quindi un’opera che consiglia determinate politiche dall’alto del sapere tecnico, ma un vero e proprio incoraggiamento al protagonismo politico da parte della maggioranza invisibile.

In questo senso, il ricercatore coglie appieno l’insufficienza dell’attuale sistema politico. Da una parte è impensabile che il testimone venga raccolto dalla sinistra istituzionale, ormai bastione dei garantiti (ma sempre più anche dei neoliberisti) e corresponsabile della precarizzazione del lavoro. Non le manda a dire nemmeno ai velleitarismi della sinistra radicale, impantanata in settarismi e incapace di interpretare le trasformazioni del Paese. Nemmeno su Renzi è elusivo: l’ex sindaco di Firenze è l’incarnazione di una delle due forme di rivoluzione passiva – il richiamo a Gramsci è esplicito – attraverso cui l’Italia ha tipicamente gestito le fasi di “rottura storica”: il cesarismo (categoria di cui fa parte l’attuale premier) e il trasformismo. L’analisi politica è semplice, ma tremendamente efficace. Per quanto riguarda il M5S, si coglie la delusione nei confronti di un’esperienza politica che aveva dimostrato la capacità di attrarre fette importanti della maggioranza invisibile, vanificata poi dall’assenza di un progetto di lungo periodo e dal peso negativo esercitato dai due leader.

Diverse questioni attuali vengono passate al setaccio e rese accessibili da una prosa scorrevole e pedagogica. I temi dell‘Europa occupano buona parte dell’analisi sociologica; qui Ferragina è categorico nel contrastare la sedimentazione del concetto di austerità: una scelta politica disastrosa, non una necessità ineluttabile come ci vogliono far credere. Per l’autore, c’è bisogno di un europeismo critico che, senza mettere in discussione l’Euro, contrasti l’orientamento neoliberista e le relazioni di subordinazione imposte da un’Unione Europea germano-centrica.

Le parole chiave del libro sono redistribuzione, universalismo ed egualitarismo. Capisaldi che dovrebbero orientare il disegno di un nuovo welfare, capace anche di superare l’inefficienza e il clientelismo che contraddistinguono l’attuale. Per farlo c’è bisogno di un progetto politico e di questo l’autore è pienamente consapevole. Ci vuole però, come sottolineato da Leopoldo Fabiani su la Repubblica, anche un capitale “mitico-simbolico” ancora tutto da costruire. Senza dimenticare che la creazione di un popolo non deve scaturire esclusivamente da un’analisi economica, ma può prendere le mosse da molte altre contraddizioni che la società odierna presenta, non tutte strettamente riconducibili alla posizione occupata dal soggetto nelle relazioni di produzione. Ad ogni modo, il saggio di Ferragina è un ottimo punto di partenza. In Spagna, il nucleo dirigente di Podemos è formato da accademici progressisti che hanno smesso di parlare la lingua consunta della sinistra. Chissà che gli auspici di Ferragina non siano l’anticamera di simili esperienze.

Twitter: @mazzuele

Articolo Precedente

I film più visti del 2014? In testa la Disney con Maleficent (20 milioni di dollari)

next
Articolo Successivo

Joe Cocker, se ne va un altro pezzo di rock

next