Non ho ancora capito se l’Expo è una barzelletta, un incubo, un’opportunità o un suicidio. Vogliamo prenderla cinicamente? Bene, gli scandali sono prevedibili, il pressappochismo è la cifra della gestione italiana di qualunque evento e l’inadeguatezza al mondo contemporaneo il nostro lascito internazionale. Non sorprende allora se la faccenda stia diventando il definitivo funerale della società italiana.

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Vogliamo parlare di vino?

Partiamo dai vizi di fondo. I geni dell’Expo tra un ritardo e l’altro, a un certo punto hanno dato aria ai neuroni superstiti e si sono ricordati che il vino forse sarebbe stato degno di rappresentazione, visto il tema dell’esposizione. Era il luglio 2013, c’era ancora Nunzia De Girolamo. Vagamente terrorizzata dall’arretratezza della situazione, dichiarò: “Quando sono arrivata al ministero non è che abbia trovato molti progetti dedicati all’importante appuntamento dell’Expo. Una manifestazione che verterà proprio sui temi del cibo e dell’ambiente. Per questo ho voluto che a Milano ci fosse un padiglione dedicato al vino (al quale se ne potrebbe aggiungere anche uno sull’olio d’oliva)”.

Grazie, Nunzia. Successivamente, il ministro Martina ha affidato all’Ente Fiera di Verona, ovvero al gigante del caos, conosciuto come Vinitaly, l’organizzazione del Padiglione vino. Bell’idea! Peccato che poco dopo il dg della Fiera, insieme all’assessore Enrico Toffali e al dirigente del Comune di Verona, Luciano Ortolani, finiscano nel registro degli indagati con tre ipotesi di reato: dall’abuso d’ufficio, alla corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, e infine la truffa aggravata ai danni del Comune.

Attiviamo la modalità garantista e diciamo che tutto procederà senza ulteriori intoppi: che vino berremo all’Expo nello splendido spazio Taste of Italy (2000 metri quadri a cui è stato dato l’ok lo scorso 28 luglio), come rappresentante della qualità italiana? Attenzione, il vino – come ci ha ricordato con lieve solennità il Commissario straordinario di sezione per il Padiglione Italia, Diana Bracco – “è un’eccellenza dell’Italia che racconta in particolare il rapporto degli uomini con il territorio circostante. Un prodotto che rappresenta due grandi caratteristiche del nostro Paese: la cultura del saper fare e quella del limite. Il saper fare discende dalla cultura millenaria di trasformare l’uva in vino. Mentre la cultura del limite è testimoniata dalla capacità dell’uomo di adattare la coltivazione della vite alle difficoltà e alle complessità del territorio italiano. È tutto questo che vogliamo raccontare nel Padiglione del vino”.

Non so voi ma io sul finale mi sono anche commosso e ho pensato ai fiumi di Barolo, Barbaresco, Amarone, Brunello, Aglianico, Fiano con cui innaffieremo il mondo. No, troppo semplice e banale. La logica con cui vengono scelti i vini che rappresentano l’Italia è puramente monetaria. Se paghi (e pure cifre abbastanza impressionanti) sei dentro, altrimenti ciao ciao Langhe, Etna e Montalcino, ciao Consorzi DOCG, ciao logica. E dentro tutti quelli pronti a spendere 3.000 euro per esibire per tre mesi una loro bottiglia nel dispenser, 110.000 euro per allestire uno stand e 600.000 euro per affittarne uno per 6 mesi.

Nell’attesa della più classica soluzione ambigua e mortifera all’italiana, a oggi i principali consorzi vinicoli hanno declinato la loro partecipazione e l’Expo potrebbe essere dominato dal solo Prosecco. E dal Franciacorta, che ha vinto l’appalto per i brindisi istituzionali, ma non sarà presente all’interno di Taste of Italy. 2000 metri quadri per bikers e skaters. Rigorosamente sobri che il vino fa male.

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