Duecentonovantanove fogli stampati in orizzontale, con caratteri diversi, correzioni e scarabocchi a penna, tabelle inintelligibili e sigle ad inchiostro. Centotrentadue pagine piene zeppe di 755 commi che costituiscono un solo articolo. Si presenta così, all’alba, dopo una delle notti più lunghe del Senato della Repubblica, la legge di Stabilità 2015 ovvero la legge – almeno dal punto di vista della governance finanziaria dello Stato – più importante per il futuro del Paese.

Una legge partorita dopo una gestazione lunga mesi ed un travaglio notturno, caotico, disordinato e rumoroso nel dialogo tra il Senato della Repubblica – che, per quanto condannato all’estinzione – dovrebbe rappresentare il tempio, per antonomasia, delle leggi dello Stato e gli uffici del governo che sarebbe bello immaginare come ordinati ed efficienti centri di ricerca e laboratori popolati di scienziati ed ingegneri economici e normativi al lavoro dietro i più evoluti sistemi informatici resi disponibili dal progresso tecnologico.

Ma l’altra notte – e non è stata la prima volta – quel tempio è stato profanato e con esso la democrazia che esso rappresenta perché non è democraticamente sostenibile – a prescindere dal risultato – che i rappresentanti dei cittadini siano chiamati a votare su un testo malscritto, zeppo di errori, di incomprensibili rimandi ad altri testi di legge noti, forse, solo ad un nugolo di addetti ai lavori e nel pieno di una notte prenatalizia.

E, al tempo stesso, i “centri di ricerca e laboratori delle leggi e dell’economia” più avanzati ed evoluti del Paese hanno dato prova di lavorare ancora con carta, penna, calamaio e pallottoliere in un’epoca nella quale i chirurghi operano un paziente a New York seduti alla loro scrivania di Parigi, il frigorifero ordina la carne direttamente al supermercato senza neppure chiedere permesso al padrone di casa, i bambini – neonati digitali – “spolliciano” sui loro tablet assai prima di iniziare a scrivere e gli Stati Uniti d’America rischiano di ritrovarsi in guerra contro la Corea perché quest’ultima avrebbe attaccato informaticamente un gigante del cinema a stelle e strisce per impedire l’uscita di un film.

Se “Cristo si è fermato ad Eboli”, come scriveva Carlo Levi, l’innovazione, l’informatica ed il digitale – a giudicare dall’anacronistico spettacolo andato in scena l’altra notte – sembrano essersi fermati sulla porta delle più alte amministrazioni della Repubblica costringendole a lavorare con mezzi, modalità e sistemi incompatibili con l’era di Internet e con la delicatezza dei compiti che sono chiamate a svolgere in un contesto economico, finanziario e politico enormemente più complicato di quello di ieri, non fosse altro perché globale e contraddistinto da ritmi non paragonabili a quelli del passato.

E’ per questo che suscita un amaro sorriso intriso di preoccupazione e condito con un pizzico di rabbia leggere dell’attimo di panico del viceministro dell’Economia, Enrico Morando, che riconosce, con apprezzabile onestà, una responsabilità condivisa per il pasticcio sull’articolato della legge di stabilità andato in scena l’altra notte: “Il momento più difficile è arrivato nel pomeriggio quando è stato chiaro che i commi del maxiemendamento non corrispondevano più a quelli commentati nella relazione tecnica. Non c’era più corrispondenza tra i commi e i rimandi – ha detto Morando in un colloquio suRepubblica – il comma 38 rimandava ad un comma 705… nel frattempo eliminato… è stato come tentare di costruire un ponte mentre qualcuno sposta continuamente la riva del fiume”.

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Ed è successo tutto semplicemente perché nelle “sforbiciate” delle ultime ore, a Palazzo Chigi, con il lodevole intento di far saltare una pioggia di “commi-marchetta” – introdotti nella confusa gestazione per soddisfare amici, parenti e lobbisti portatori dei più disparati interessi – si sono “barrate” a penna intere disposizioni, facendo saltare, ovviamente, la numerazione.

Ed è evidente che se si elimina il comma due di una legge, tutti quelli che seguono, sino ad arrivare, nel caso del disegno di legge di stabilità, al 755 cambiano numerazione e con essi, altrettanto accade – o dovrebbe accadere – alla montagna di rimandi infra-testuali, sfortunatamente presenti in ogni legge.

Ma possibile che nell’asse tra il Senato della Repubblica e Palazzo Chigi non esistano, alla vigilia del 2015, sistemi informatici in grado di governare processi come questo, che si ripetono – esattamente eguali a loro stessi – da decenni e che, inesorabilmente, si ripeteranno – proprio così – nei lustri a venire?

Certo, situazioni di emergenza possono capitare ovunque ed in ogni settore e ci si può ritrovare – persino nel 2015 – costretti a scrivere d’urgenza una legge persino su un fazzoletto di carta se si tratta di salvare vite messe in pericolo da una calamità naturale o gestire un’improvvisa crisi internazionale scoppiata in piena notte, ma non può succedere che si abdichi all’innovazione ed al progresso mentre si lavora ad una norma di programmazione economica e finanziaria il cui timing e la cui roadmap sono noti, persino ai bambini, e si ripetono identici, ormai dal 2009.

E’ questo che ha davvero dell’incredibile forse persino di più del contenuto dei 755 commi che compongono la legge di stabilità appena approvata.

Ha dell’incredibile che un pasticciaccio come quello dell’altra sera sia stato dovuto solo marginalmente ad un’esasperata ed esasperante dialettica politica o al tradizionale ostruzionismo parlamentare di qualcuno e, invece, prevalentemente alladisorganizzazionearretratezza, mancanza di innovazione della macchina che dovrebbe essere a servizio di chi scrive le leggi in nome del popolo e della democrazia.

Sono i procedimenti, i processi, i metodi e, soprattutto, i mezzi ed i sistemi usati per scrivere le leggi – poco conta che si tratti della legge di stabilità o di qualsiasi altra – ad aver fatto flop l’altra notte ed ad averlo fatto centinaia di volte in passato. Non è così – o almeno non dovrebbe essere così – che si scrivono le leggi perché da tanto caos nascono inevitabilmente brutte leggi che minacciano di frustrare ogni esercizio democratico.

E non è una questione di forma perché chiedere ad un senatore della Repubblica – per quanto la carica sia stata progressivamente svuotata di prestigio e significato – di votare, in piena notte, una legge che si fa fatica, persino a leggere, addirittura all’alba del giorno dopo, con la freschezza e la lucidità del mattino, significa trasformare la rappresentanza democratica in una questione burocratica e la democrazia in una catena di montaggio in cui si assemblano oggetti inanimati.

Forse non è troppo tardi per cambiare rotta ma bisogna cominciare – e di corsa – a riscrivere il sistema operativo del Paese, cominciando proprio da quello relativo al modo di scrivere le leggi.

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