Su Mafia Capitale il tassista romano che ieri sera mi portava in albergo esponeva una tesi candidamente hegeliana, in cui saremmo tutti immersi in una notte in cui tutto appare uguale. Potendo tutti farebbero i propri interessi. Chi farebbe un bando pubblico se può mettere su un amico, un parente? Recentemente Luigi D’Elia, psicoterapeuta capitolino, constatava qualcosa di simile. La vicenda di Roma mette in effetti in risalto la preoccupante, epidemica diffusione di caratteristiche tipiche delle personalità criminali e del pensiero mafioso come riportato nei manuali di psichiatria e criminologia: il disprezzo del bene comune, la mancanza di senso di colpa e di un orizzonte etico, l’utilitarismo estremo.

Tuttavia Massimo Carminati, l’ex boss della banda della Magliana privo di un occhio a causa di una sparatoria e protagonista indiscusso della vicenda Mafia Capitale ha coniato l’evocativa metafora del mondo di mezzo, individuando una diversa topologia del male. Il luogo di maggiore interesse per il crimine sarebbe qui situato nello spazio dell’intermediazione, non già quindi tout court nel sottobosco criminale presente in ogni città ma nel luogo del legame “tra i morti e i vivi”, tra chi subisce e chi determina scelte private e pubbliche, tra schiavi e liberi, tra i criminali più o meno conclamati e i presunti o sedicenti onesti. Ci troveremmo quindi di fronte ad una sorta di patologia degli interstizi. L’esistenza di un tessuto connettivo è in questa vicenda decisamente provvidenziale all’economia criminale poiché permette una facile assimilazione di una logica mafiosa in cui la corruzione può diventare parte integrante della vita pubblica, consuetudine, normalità. Qui ritroviamo la lezione di Hannah Arendt: può essere impossibile percepire il male quando esso sia divenuto quotidiano, comune, banale.

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Non che sia un destino. Perché accada questo occorrono infatti almeno due ingredienti. Uno, si deve dare come disponibile un tramite, la connessione che privi i “vivi” del contatto diretto con i “morti”, con il mondo violento e gretto della criminalità, con i suoi miti e riti, le sue percezioni naturalmente allarmanti. Due, si deve dare una condizione di costante emergenza legata alla volontà di espellere i residui sociali, i rom, gli immigrati, la grave marginalità, di rendere invisibili i fantasmi, i resti della vita quotidiana bourgeois, di rimuovere ciò che non si può o non si vuole governare alla luce del sole.

Pierfrancesco Majorino, nel suo ruolo di assessore milanese alle politiche sociali rileva che l’assenza di politiche sull’immigrazione è il vero problema emergente in questa vicenda. E’ da ciò che non si è voluto affrontare, da quello che viene nascosto, dai rifiuti sospinti sotto il divano che provengono i miasmi peggiori. Va evitato in ogni modo il pericolo che il sudiciume esca dal suo nascondiglio e venga visto ciabattare (in gergo Salviniano) per le strade. Il che trasforma il tema del sociale in una costante emergenza, che può risolvere solo qualche amico invisibile e provvidenziale. Direttamente dal mondo di mezzo.

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