Come ha annunciato esultante Maria Elena Boschi “l’intesa con FI c’è”. E c’è stata anche quando le turbolenze con il Pd sembravano metterla a rischio, perché non doveva essere altrimenti secondo quanto convenuto da Napolitano, Renzi e Berlusconi.

Questa intesa “s’ha da fare” è stata la vera road map e la missione prioritaria del governo Renzi: ‘il pacchetto Italicum‘ dalla sua genesi doveva consolidare l’intesa bipartisan tra il finto paladino della rottamazione e il vecchio crociato della rivoluzione liberale ad personam.

Ma, scopo non secondario dell‘intesa teleguidata dal Colle era anche quello di mettere all’angolo e ridurre all’irrilevanza il movimento politico che ha ottenuto il 25% dei consensi alle politiche, in quanto alieno agli accordi spartitori e agli incontri con favore di tenebra.

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Quello di martedì scorso, trapelato in seguito, tra Denis Verdini che entra con il bavero alzato da un accesso secondario di palazzo Chigi  per incontrare Luca Lotti, il plenipotenziario delle trattative per le riforme del Pd, e poi lo stesso Renzi è un bello spaccato di trasparenza e di novità.

Circa nelle stesse ore in cui Verdini entrava furtivo a palazzo Chigi per la blindatura definitiva dell’Italicum, non solo nei contenuti ma anche nei tempi, Maria Elena Boschi diceva ancora, come da molti mesi,  che le riforme si possono fare con FI come con tutte le altre forze presenti in Parlamento.

E intanto Renzi alla Camera sferzava il M5S per la sua indisponibilità e la sua inutilità istituzionale e poi passava all’ irrisione esplicita: “Siamo consapevoli delle vostre difficoltà” e vi rivolgiamo “un caro abbraccio”. Anzi il dialogo a due tra lui Currò, l’ennesimo dissidente del M5S accorso a sostenere il governo tra le grida di tripudio dai banchi del Pd, ha confermato quello che già era chiaro con la telefonata confidenziale tra il presidente-segretario e l’espulso Artini: dallo scouting di Bersani il Pd è passato alla marcatura ad uomo di ogni deluso o aspirante transfuga del M5S.

Solo il giorno prima poi, c’era stato il siparietto di Renzi con Romano Prodi a Palazzo Chigi finalizzato a far credere agli ingenui che volesse lanciare un segnale di sfida a Berlusconi e di apertura al M5S in merito alla scelta del nuovo inquilino del Quirinale, capitolo tutt’altro che secondario della grande intesa con FI.

In una manciata di giorni, al di là della riuscita effettiva dell’intesa Renzi-Berlusconi, il percorso congiunto delle riforma elettorale-costituzionale e lo snodo del tanto paventato “ingorgo istituzionale” sono stati definiti con la benedizione del capo dello Stato, dal presidente del Consiglio e da Denis Verdini nei dettagli con la premessa che l’opposizione vera dà solo fastidio.

Ancora una volta, da quella che sembra la blindatura definitiva dell’Italicum, Berlusconi pur essendo al minimo dei consensi e dei voti alle scorse regionali in Emilia e Calabria, ha ottenuto ciò che gli premeva e che gli garantisce comunque di non scomparire e di avere un presidente della Repubblica “non ostile”.

Il voto per il Quirinale slitterà dopo  il 20 gennaio, la data entro cui il Senato dei non eletti e l’Italicum dei 100 capolista nominati dovrebbero già essere approvati  e, quel che è altrettanto vitale per lui,  Berlusconi ha ottenuto la garanzia che che non si andrà al voto prima del 1 settembre 2016.

Per un partito delle dimensioni di FI avere i capilista bloccati significa che il 90% degli eletti, se non il totale, sono messi in lista da Berlusconi e non a caso è questo l’argomento cardine per tenere a bada il dissenso interno e la concorrenza di Fitto: tranquilli, sono io che vi candido.

E comunque nella nella remota ipotesi che si andasse al voto prima sarebbe con il Consultellum, rigorosamente proporzionale e non con il Mattarellum da sempre inviso a Berlusconi.

Sulla necessità di riforme che servano a rinnovare e non ad impoverire la democazia e sui rischi di accelerazioni che possono riprodurre ingigantito al Senato “il pasticcio delle province” si è espresso anche un dissidente dem moderato come Vannino Chiti. Uno che ovviamente, a differenza di Grillo, “in accordo o disaccordo” non polemizzerebbe mai con Napolitano, ma poi nella sostanza dice senza mezzi termini che il capo dello Stato non può fare pressing e che le riforme devono essere fatte presto ma bene. E le correzioni imprescindibili devono andare nel senso della riduzione di deputati e senatori, dell’elezione dei rappresentanti della Camera delle autonomie da parte dei cittadini contestualmente all’elezione dei consigli regionali e dell’abolizione nell’Italicum dei capilista nominati.

Al di là dei toni le critiche alle riforme sono le stesse delle opposizioni, anche di quelle affette dalla “patologia eversiva dell’antipolitica”.

Bisogna solo vedere se i dissidenti dem vorranno passare dalle parole ai fatti, o se si tratterà ancora del noto “armiamoci e partite”.

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