Non è un collaboratore di giustizia e non si è mai pentito dei crimini commessi, non ha mai ammesso l’esistenza di Cosa Nostra e nemmeno di farne parte, è condannato all’ergastolo come mandante ed esecutore della strage di via d’Amelio, eppure ha accettato di deporre come testimone all’ennesimo processo sull’assassinio di Paolo Borsellino. È un vero e proprio show, quello messo in scena da Pietro Aglieri, il boss di Santa Maria di Gesù, convocato come teste assistito al processo Borsellino Quater, nato dopo le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, che hanno definitivamente smentito la ricostruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino.

Il balordo della Guadagna aveva indicato proprio in Aglieri l’uomo che aveva premuto il telecomando in via d’Amelio il 19 luglio del 1992: il boss è stato dunque condannato in via definitiva sia come mandante che come esecutore dell’eccidio. E oggi che Spatuzza ha riscritto completamente la dinamica della strage, Aglieri è stato convocato come teste assistito davanti la corte d’assise di Caltanissetta: due anni fa, aveva accettato di rispondere alle domande dei pm durante l’interrogatorio, adesso ha accettato per la prima volta di testimoniare anche durante il processo. Fedelissimo di Bernardo Provenzano, un passato da studente in seminario, soprannominato “u signorino” per la sua passione per gli abiti firmati, Aglieri finisce in manette il 6 giugno del 1997: viene trovato a Bagheria in un covo stracolmo di crocifissi e immagini sacre.

Fedelissimo di Bernardo Provenzano, Aglieri finisce in nel 1997: viene trovato a Bagheria in un covo stracolmo di crocifissi e immagini sacre

Non ha mai “saltato il fosso”, non ha mai deciso di collaborare con la magistratura, ma è finito sui giornali come l’uomo della dissociazione, e cioè il boss che tentò di ottenere per i padrini mafiosi gli stessi benefici previsti per i terroristi: sarebbe bastato abiurare la fedeltà a Cosa Nostra e si sarebbero avuto sconti di pena. “Io ebbi un colloquio con il dottor Pier Luigi Vigna che mi venne a trovare nel carcere: io dissi esplicitamente che non avevo niente di cui dissociarmi, o pentirmi. Il procuratore, che era una persona correttissima disse: per la nostra terra voi che potete fare? Io dissi che c’era solo una possibilità: da questo momento ognuno poteva fare una riflessione, e desistere dall’andare contro lo Stato. Non era una trattativa o una dissociazione, ma una desistenza” ha spiegato il boss, collegato in video conferenza dal carcere romano di Rebibbia con la corte d’assise di Caltanissetta. “Che tipo di desistenza? Desistenza dall’associazione mafiosa chiamata Cosa Nostra?” ha chiesto a quel punto il pm Nico Gozzo. Aglieri però non si è fatto trovare impreparato: essendo ancora un boss a tutti gli effetti non può confermare l’esistenza di Cosa Nostra altrimenti violerebbe la prima regola della piovra, e cioè quella dell’omertà. E la sua risposta è un raro esempio di puro pragmatismo mafioso. “Signor procuratore sia che l’associazione ci fosse sia che non ci fosse, eravamo tutti condannati per quel reato, quindi dovevamo desistere dal reato che ci veniva contestato. Lei può chiamarla come vuole: Cosa Nostra, associazione, mafia. Io di certo non posso chiamarla in alcun modo”.

Mai pentito. “Io dissi che c’era solo una possibilità: da questo momento ognuno poteva fare una riflessione, e desistere dall’andare contro lo Stato”

La parte principale della deposizione di Aglieri è stata dedicata alle fasi immediatamente successive al pentimento di Scarantino, quando il balordo della Guadagna lo accusa di avere partecipato alla strage. “Io – ha spiegato il boss teste – conoscevo Scarantino. Era della mia stessa borgata, quella della Guadagna. Lo incontravo quasi giornalmente. Eravamo vicini di casa. Posso ribadire quanto già detto in precedenza: Scarantino non poteva essere investito da me di alcun incarico per commettere azioni rilevanti. Escludo che io nella mia posizione abbia dato confidenza a gente simile. Dopo il suo arresto mi accertai che lui non c’entrasse nulla con il furto della 126 e mi venne escluso. Per questo ero tranquillo che non sarei stato tirato in mezzo all’inchiesta. Cosa che poi invece accadde”.

Solo che dopo le false accuse di Scarantino, Aglieri ha spiegato di non avere chiesto alcuna informazione ai membri dell’organizzazione. “Che dovevo fare? Io non posso sapere chi sia a conoscenza di questa storia. Se vado a chiedere conto e ragione di questa situazione a qualcuno è come dare per scontato che quell’altro ne sa qualcosa” ha detto il boss, fornendo un plastico esempio della logica mafiosa. Solo in due casi il teste si è avvalso della facoltà di non rispondere: quando il pm ha chiesto dei suoi rapporti personali con Totò Riina, e quando l’avvocato Flavio Sinatra, legale del boss Salvatore Madonia, gli domanda di una sua eventuale presenza a riunioni per lo scambio di auguri di Natale. Il riferimento del legale è per i summit organizzati nell’inverno del 1991 in un casolare nei pressi di Enna: riunioni in cui viene programmata la strategia stragista di Cosa Nostra nel caso in cui la Cassazione avesse confermato le sentenze del Maxi Processo. Aglieri sa bene quale sia il riferimento dell’avvocato, e risponde secco: “Non ho partecipato a riunioni per gli auguri di Natale. E nemmeno a riunioni per gli auguri di Pasqua”.

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