Non chiamatela guerra. E neanche invasione. Non è più tempo per le armi, per le battaglie sanguinose, per gli scontri frontali. Il colonialista postmoderno si presenta alla porta di un Paese – e perché no, di un continente – in felpa, scarpe da ginnastica e con l’angelico sorriso del filantropo. L’invasione è docile, l’offerta è succulenta: Internet per tutti. Perché Internet significa possibilità di connettersi con le persone che più si amano, perché Internet significa avere nuove opportunità di lavoro, perché Internet significa, dopotutto, avere una vita migliore.

O almeno questo è il verbo propagandato da Facebook ogni qual volta il suo fondatore mette piede in un Paese da occidentalizzare. L’inchiesta del Time, a cura di Lev Grossman, sull’ultima “invasione” di Mark Zuckerberg della città di Chandauli (India) offre ricchi spunti di riflessione sulla filantropia e sull’imperialismo ai tempi di Facebook.

Progetti illuministici come Connectivity Lab e Internet.org vogliono portare la rete a quei due terzi di popolazione mondiale che naviga al massimo nella fame. Perché “nessuno dovrebbe essere costretto a scegliere tra l’accesso a Internet e il cibo o le medicine”, recita il Vangelo secondo Zuckerberg. Viene tralasciato che non esistono evidenze empiriche che certifichino che una società più connessa è una società in cui le persone stanno meglio. Inoltre il colonialista 2.0 mascherato da filantropo in calzoncini ripropone l’idea di un capitalismo perverso, di stampo ottocentesco, alla Dickens. Il compromesso vittoriano del 2014 è quello del grande proprietario di Big Data che elargisce la connessione low cost, o addirittura gratis, agli indigenti digitali. Il mecenate di Menlo Park non chiede troppo in cambio: pretende “solo” i dati di tutti gli abitanti del mondo.

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In osservanza alla legge della crescita infinita, il turbo-capitalismo della Silicon Valley sta spacciando la propria sete di dati per una missione salvifica in favore dell’umanità. Da quando gli investitori di Facebook hanno iniziato a rivedere al ribasso le stime di crescita della piattaforma di social networking, il colosso di Menlo Park ha dovuto volgere lo sguardo sui nuovi orizzonti di questa data-driven society, globale e interconnessa.

Henry Ford aumentò il salario dei propri dipendenti per permettere agli stessi lavoratori di acquistare le auto da loro prodotte. Mark Zuckerberg porta Internet a chi non ce l’ha per dare modo ai nuovi utenti di produrre dati da segmentare e rivendere ai pubblicitari. Un investimento a lungo termine, tutto qui.

L’umanitarismo di Zuckerberg ha però, dalla sua, molteplici controindicazioni. Innanzitutto, propala false speranze, perché come chiunque può ben immaginare il conflitto tra Israele e Palestina non si risolverà nel cyberspazio. Nella sua immagine del mondo – e in quella degli investitori che gli scrivono il copione – le guerre non esisterebbero se solo tutti avessero un account Facebook. La retorica della connessione pacificatrice ci ha raccontato il ruolo fondamentale di Facebook nella Primavera Araba, senza specificare che gran parte dei dittatori da spodestare a colpi di post sono rimasti sul loro trono e che nei Paesi abbracciati dalla rivoluzione digitale la connessione non ha condotto ad alcuna svolta liberale.

In secondo luogo, si adducono a sostegno morale della missione di Facebook alcuni singoli casi in cui la creatura blu avrebbe avuto il merito di organizzare proteste e dare voce a delle roche pretese di democrazia. Ma, come insegna l’esperienza dell’Iran, l’effetto più concreto in alcuni Paesi è stato quello di dare ai regimi repressivi uno strumento di controllo in più sulla popolazione: lo stream di informazioni digitali si è riversato contro gli utenti, anziché a favore. Per molte persone una semplice condivisione su Facebook ha portato all’arresto, se non quando alla fustigazione.

Se i benefici che Facebook ha portato nel mondo sono a somma zero, c’è da chiedersi quanto sia fondato il sostegno dell’Occidente a quest’opera di evangelizzazione digitale. Le chiavi della democrazia sono state davvero affidate alle attività simil-filantropiche di un’azienda privata? Forse è colpa dei media, che ne hanno ingigantito la portata; forse è colpa della politica, che non ha più gli strumenti fiscali né la legittimazione popolare per arginare i conquistadores #trepuntozero; forse è colpa degli utenti, che hanno accettato acriticamente il mito del progresso bonario, quello per cui l’innovazione avrebbe sempre e solo conseguenze positive. Forse è colpa di tutti, ma non importa.

Quel che conta è che ogni giorno ci svegliamo, leggiamo le notizie dentro un non-giornale come il News Feed, vediamo che un team di informatici conquista Paesi come Luigi XIV, che degli algoritmi scrivono il codice di condotta delle relazioni umane, che un dittatore in bermuda spiega a persone senza istruzione e senza cibo le potenzialità del social recruiting. E tutto questo ci sembra assolutamente normale.

La triste verità è che agli utenti di Facebook, presenti e futuri, non è richiesto di pensare né di esprimersi – perché non è vera democrazia. Bisogna connettere le persone, non i cervelli. E dopotutto è gratis e lo sarà sempre, quindi male non può fare. L’importante è che non ci sia conflitto, che l’imperatore indossi sempre la stessa rassicurante T-shirt, che la colonizzazione non faccia schiavi, che le persone si sentano libere.

Ma come ricorda Erich Fromm nella sua più celebre opera, “è possibile schiavizzare l’uomo anche senza ridurlo in ceppi”. Quindi ora sentiti libero. Libero di cliccare sul tasto “condividi”.

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