Ci fu un tempo, durato diversi secoli, in cui l’Italia, geo-politicamente smembrata tra stati e staterelli vari, poteva vantare una tale esuberanza e ricchezza culturale da consentirle non solo di esportare in tutto il mondo i prodotti artistici di casa propria, ma di affermare l’italiano quale lingua più diffusa e praticata in tutta Europa. Una vera e propria egemonia culturale realizzata soprattutto grazie all’enorme successo dell’opera lirica, quel genere sorto e affermatosi a partire dagli inizi del XVII secolo tra capitali culturali di primo piano quali Firenze, Roma, Venezia e Napoli. E a parlarci di questo incredibile quanto non infrequentemente misconosciuto miracolo italiano, è giunto poco meno di due mesi or sono l’ultimo disco di Cecilia Bartoli. Mezzosoprano di fama mondiale, la Bartoli ha infatti deciso di ridare vita a una serie di splendide, oltre che inedite, arie di Cimarosa, Araia e Manfredini, tutti compositori italiani (i primi due appartenenti alla prestigiosa scuola napoletana) del XVIII secolo accomunati dal servizio prestato presso la corte imperiale russa.

Gli italiani dunque dominavano, artisticamente e culturalmente, l’intera Europa, e a richiederli erano i sovrani di ogni angolo del vecchio continente. Tra le varie città italiane esportatrici d’arte e cultura era poi Napoli la regina incontrastata

 

St Petersburg è il nome del nuovo lavoro discografico della cantante lirica romana, un progetto coraggioso, oltre che generoso, già in vendita dal 14 ottobre. Arie d’opera di compositori di tale livello e importanza da porre in secondo piano qualsiasi altro musicista loro contemporaneo: ed è questo il caso, ad esempio, del tedesco Hermann Friedrich Raupach, unico non italiano non solo a comparire nell’ultimo disco della Bartoli ma anche presso la stessa corte imperiale russa lungo tutto il 1700, soggiorno che fece in qualità di direttore dell’opera italiana di San Pietroburgo come successore del napoletano Francesco Araia, e il cui idillio terminò proprio all’arrivo del pistoiese Manfredini, compositore dinanzi al quale il tedesco venne immediatamente sostituito. Gli italiani dunque dominavano, artisticamente e culturalmente, l’intera Europa, e a richiederli erano i sovrani di ogni angolo del vecchio continente. Tra le varie città italiane esportatrici d’arte e cultura era poi Napoli la regina incontrastata, dominatrice della scena musicale dell’epoca quanto e più di come oggi possano esserlo Londra, Berlino e New York. Napoletani, o di area e scuola napoletana, erano buona parte dei più grandi musicisti del tempo: dagli Scarlatti (Alessandro prima e Domenico poi) a Pergolesi, da Cimarosa a Piccinni, da Traetta a Paisiello, da Galuppi a Porpora, fino a Jommelli, Vinci, Sacchini e…decine e decine d’altri. Il San Carlo, teatro lirico della principale città partenopea edificato nel 1737 per volontà del re Carlo di Borbone, era non solo il più rinomato e famoso d’Europa, ma quello che fece da modello a tutti i successivi teatri d’opera europei. Stendhal, fan sfegatato di Rossini nonché di tutta l’arte e cultura italiane, trovatosi a Napoli in occasione della riapertura del San Carlo dopo l’incendio che nel febbraio del 1816 ne distrusse un’intera sala interna, riporta nei suoi diari: “Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea”.

“Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea”, scrisse Stendhal 

Ancora oggi i nostri cantanti e le nostre orchestre viaggiano in giro per il mondo protetti e in qualche modo sostenuti dalla gloria e dai fasti del grande passato italiano, al punto da poterci legittimamente porre la domanda: chi porta cosa? Sono i nostri più grandi e celebri musicisti a far conoscere la tradizione artistica italiana in tutto il mondo o, viceversa, quella stessa tradizione a consentir loro di calcare le scene dei maggiori teatri di tutti e cinque i continenti? Entrambe le ipotesi possono dirsi valide, ma occorre certamente ringraziare il lavoro e lo spirito d’abnegazione di artisti come Cecilia Bartoli che, col loro impegno, creano le condizioni e l’occasione giusta per darci memoria di chi siamo stati, del ruolo che abbiamo avuto e di quanta cultura, vera, viva, siamo stati promotori ed esportatori nel resto d’Europa, dunque del mondo. Dopo aver lavorato con eccellenze mondiali quali i Wiener Philharmoniker diretti dal compianto Claudio Abbado, nonché Il Giardino Armonico di Giovanni Antonini, tocca oggi a Diego Fasolis e ai suoi I Barocchisti traghettare la voce della celebre cantante romana in un viaggio tra barocco e stile galante, un viaggio che ricorda quell’ “Italienische Reise” (Viaggio in Italia di Goethe) che ogni artista o uomo di cultura dell’epoca desiderava più d’ogni altra cosa al mondo. Oggi, tra enti lirici in rovina e orchestre che vengono liquidate dalla sera alla mattina, tra finanziamenti sempre meno ingenti e una sensibilità politica pressoché assente, portare memoria di cosa ha reso grande e importante questo paese è forse il primo passo concreto verso una svolta, prima che economica, sociale e culturale.

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