“Io lo sto a capi’ adesso, i sordi puliti valgono er doppio”. Parola di Fabio Gaudenzi, personaggio di primo piano della Mafia Capitale comandata da Massimo Carminati, secondo i carabinieri del Ros che lo intercettavano. Gaudenzi ha precedenti per omicidio, ricettazione, lesioni, porto abusivo di armi, rapina, evasione, violazione della legge sugli stupefacenti. E, come Carminati, è un estremista di destra, con un passato tra gli ultrà romanisti di Opposta fazione e il Movimento politico di Maurizio Boccacci. Il suo, però, non è un ravvedimento. Come mai i “sordi puliti” valgano il doppio di quelli sporchi lo spiega poco dopo, nella stessa intercettazione telefonica datata 18 novembre 2013: “Perché vedi, te lo dimostra Ernesto (Ernesto Diotallevi, boss della Banda della Magliana, ‘vittima’ di un sequestro di beni tale da impedirgli di saldare un debito di 450mila euro, ndr). Fai tutto tutto, poi arrivi a un certo punto che arriva l’operazione e ti levano tutto, tutto quello che hai fatto, allora era meglio che c’avevi la metà di quello che c’avevi, capito?”. Non fa una grinza. Illuminante, poi, la conclusione di Gaudenzi: “Allora uno deve anche pensa’, fino ad adesso ho fatto un certo tipo di vita e mi è andata bene, cerco de riciclamme sur pulito”.

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Meglio di una sentenza, meglio di un trattato sociologico. Eccola la nuova mafia, quella “scoperta” a Roma dal procuratore Pignatone e dai suoi colleghi, e quella descritta da molti esperti come il volto di ‘ndrangheta e Cosa nostra degli anni Duemila. Perché, dopo la svolta del maxiprocesso di Palermo, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, i boss e i picciotti in carcere ci vanno e ci restano, e intanto le loro ricchezze vengono sequestrate e confiscate a botte da milioni di euro alla volta. E chi è ancora fuori sa, come spiega Gaudenzi, che “a un certo punto arriva l’operazione” e sono dolori. Ecco allora la necessità di “riciclasse sur pulito”, prima che sia troppo tardi, magari pensando anche i figli e alla vita difficile a cui rischiano di andare incontro con certi cognomi ingombranti e non più intoccabili.

Una vittoria dello Stato, indubbiamente, almeno di quella parte di Stato che la mafia la combatte. Ma non c’è tempo di fermarsi a festeggiare. La mafia che si “ricicla” negli affari leciti, non più come puro reinvestimento dei profitti sporchi, ma come oggetto sociale dell’organizzazione, continua a essere mafia e ad avvalersi della sua forza criminale. E’ la tesi di Pignatone e degli investigatori del Ros. I business della Mafia capitale di Carminati non sono la droga o la prostituzione, ma gli appalti pubblici, l’edilizia (con l’immancabile movimento terra), l’immobiliare. E l’usura, da tempo pericolosissima zona di confine tra economia mafiosa ed economia pulita. “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”, sintetizza mirabilmente in un’intercettazione Salvatore Buzzi, l’uomo delle coop rosse finito nell’orbita del nerissimo ex terrorista dei Nar.

Ma quando è necessario, ecco che si fa valere la forza di chi comanda “sulla strada”, come dice ancora Carminati, e si mandano in campo i picchiatori e i killer. Così come resta intatta la tipica capacità mafiosa di creare ragnatele di rapporti che, per convenienza e/o ricatto, legano il potente al criminale, l’imprenditore allo spicciafaccende, il “vip” al balordo di quartiere. Non il “controllo del territorio”  tipico della “vecchia mafia” al Sud, piuttosto il controllo di filiere produttive, circuiti politico-imprenditoriali, appalti, informazioni, relazioni. A Palermo come a Reggio Calabria, a Roma come negli hinterland di Milano e Torino, o sulla Riviera Ligure. Un controllo violento quando serve, ma non sempre e non necessariamente.

Se la tesi di Pignatone e colleghi reggerà lo dirà il processo, e i legali degli indagati stanno già affilando le armi per contestare, prima di tutto il resto, l’accusa di 416 bis – l’associazione per delinquere di stampo mafioso – che a detta dello stesso Pignatone tocca in questo momento anche l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno. Ma di nuova mafia si sente parlare sempre più spesso nei tribunali. A Brescia il termine è stato utilizzato dal Procuratore generale Pierluigi Dell’Osso per descrivere l’arresto di 15 persone, in prevalenza imprenditori, professionisti e funzionari pubblici, accusati di impiegare negli affari il “metodo mafioso”, pur non essendo affiliati né “punciuti” da nessun padrino vero. E recentemente a Torino sono arrivate le condanne in primo grado per 416 bis a un gruppo criminale né calabrese né siciliano né campano, ma romeno.

Il mondo cambia e anche Massimo Carminati, protagonista di quattro decenni di criminalità ed eversione nera a Roma, sembra rendersene conto, notano gli investigatori del Ros. Negli ultimi anni il contrasto delle forze dell’ordine e della magistratura si è fatto più pesante e dunque anche lui comprende “le controindicazioni di un modello criminale basato su un uso essenziale dell’intimidazione e della violenza”. Ben più vantaggioso è “indurre l’imprenditore a ricercare o almeno accettare la vicinanza del sodalizio, avvalendosi dei suoi ‘servizi'”. Dalla classica “protezione” mafiosa alla legittima fornitura aziendale.

Come dice lo stesso Carminati, intercettato il 13 dicembre 2012, non vale più la pena di fare il recupero crediti (violento) per conto terzi. Perché spesso, con la crisi, la vittima i soldi non ce li ha davvero e non è pestandola a sangue che saltano fuori. E perché caso mai è meglio “intervenire prima”, con il meccanismo della protezione. E perché, soprattutto, chiarisce Carminati, “non siamo più gente che potemo fa’ una cosa del genere… pe’ du lire”.

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