Il tormento, che è durato a lungo, nasceva da un’unica considerazione: “Se azzeriamo tutto – commentava ad alta voce, ieri alla Camera, un Matteo Orfini visibilmente preoccupato –  poi potrebbe sembrare un’ammissione di colpa”. “Ma se è vero che stanno per arrivare altri arresti – questa la sua conclusione – non possiamo fare diversamente”. Poi l’annuncio di Matteo Renzi di far “tabula rasa” del Pd romano, consegnandone le chiavi proprio al presidente del partito, da tempo in rotta di collisione con i vertici del partito capitolino, di cui lui stesso è stato espressione, almeno fino alla fondazione della corrente interna al Nazareno dei Giovani Turchi.

Orfini, dunque, sarà commissario del Pd romano. Il suo mandato è quello di far fuori le mele marce e ricostruire. Nella consapevolezza che questa inchiesta, questo terremoto del partito locale, avrà ripercussioni pesanti sul Nazareno. Su un Pd che affonda le sue radici, da sempre, dentro il cuore di Roma, in quello storico circolo di via dei Giubbonari 38, a due passi da piazza Navona, palestra politica di tutti i big di sempre, da D’Alema in poi, passando per Veltroni e Rutelli. E di mezzo governo, da Gentiloni a Marianna Madia. Per non parlare del capogruppo al Senato, Luigi Zanda, o di Dario Franceschini, la cui neo moglie si trova in giunta con il sindaco Ignazio Marino e sempre lì ha mosso i primi passi. Oggi, la storica “sezione numero 1” è diventata, invece, il cuore di una malattia da estirpare, con una base “da rifondare” di sana pianta. Uno strappo storico per il Pd, una lacerazione pesante anche per il governo.

Per capire il grado di scossa tellurica politica che rappresenta l’azzeramento voluto da Renzi sul Pd romano bisogna fare un piccolo passo indietro. Piccolo perché di poche settimane fa, all’inizio di novembre. Quando la profonda crisi finanziaria e politica della giunta capitolina, guidata dal “marziano” Marino, aveva convinto prima Lionello Cosentino, forte segretario “dei Giubbonari” e Lorenzo Guerini poi, a mettere un punto all’azione del sindaco al centro del cosiddetto “multa gate”, ovvero lo scandalo delle multe non pagate della sua Panda rossa e la questione del permesso per il centro storico falsificato. Pareva, in quei giorni, che il governo del Campidoglio fosse entrato in un tunnel senza luce in fondo. Vittima di una crisi, animata dalla destra di Alemanno, ma fomentata anche da esponenti storici di ex An, come il senatore Andrea Augello, tra i primi accusatori di Marino, che aveva convinto anche i più teneri verso il sindaco, a mettere un punto alle sue strategie “marziane” per il governo della città. Per un’ampia fetta del partito romano, insomma, questo significava commissariare, in qualche modo questa esperienza “fallimentare”. Anche a costo di tornare alle urne a primavera, casomai in un election day con le politiche.

Di questo, insomma, si parlava, ormai apertamente, fino a quando la Finanza non ha bussato alla porta dell’ex sindaco Alemanno. E il quadro si è ribaltato. Con il Pd romano costretto a spiegare a Guerini prima e a Renzi poi il perché di quegli attacchi a Marino che, a quel punto, si sono velati di tutt’altro significato. Un significato pesante, inquietante. Addirittura indecente.

In queste ore alla Camera diversi deputati chiedevano a Renzi, a Montecitorio per un singolare “question time”, di gettare tutto alle ortiche, dalle tessere agli organismi assembleari, proprio per togliere dall’immagine del Pd romano quell’idea di essere, a pieno titolo, un abitante del “Mondo di Mezzo”, “dell’armata del male” (l’espressione è di Marina Sereni), regno incontrastato di un ex Nar e membro della Banda della Magliana dello spessore di Massimo Carminati. Una banda che puntava a mettere al posto di Marino Umberto Marroni, oggi deputato Pd, dalemiano di nascita, ieri uomo forte del partito romano con un passato di punta nel governo cittadino, di cui da giorni si sono perse le tracce a Montecitorio.Voleva candidarsi alle primarie contro Marino, poi lo stesso Pd gli chiese di “non bruciarsi”, ma soprattutto di non dividere l’elettorato. Lui obbedì, in attesa di spiccare il volo al prossimo giro. Quello che il “mondo di mezzo” voleva accelerare, visto come lo hanno immortalato seduto a tavola con tutti quelli che a Roma hanno mosso per anni i fili del governo della Capitale, dall’ex capo dell’Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l’ex assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato), l’ex vice di Alemanno Sveva Belviso e  – appunto –  proprio lui, il potente Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a Panzironi.

Carriere che si frantumano su uno scatto. O su qualche intercettazione scabrosa. Per dire: Luca Odevaine, quello che “prende i soldi”, fino a ieri osannato ex vicecapo del gabinetto di Veltroni con legami formidabili nei palazzi della politica romana, ex capo della polizia provinciale con Zingaretti, punto di riferimento ineludibile del partito romano, che ha “cresciuto” Marianna Madia ed è stato sempre tenuto in gran conto da Goffredo Bettini e da Roberto Morassut, quest’ultimo ex assessore della giunta veltroniana, oggi anche lui deputato. Per non parlare di Walter Verini, ex squadra veltroniana, oggi alla Camera, un passato anche da portavoce. Una squadra di ferro, insomma. E Odevaine èl’uomo vetrina di questo gruppo, che addirittura si era anche fatto cambiare il cognome per celare un’antica condanna per droga. E nessuno lo sapeva. Dicono.

Azzerare tutto il Pd romano significa cancellare di colpo la storia di quello che, come scriveva Marroni per la Fondazione di D’Alema, Italianieuropei, già nel 2006, è stata la sinistra romana per il Paese, ovvero “il perno e il motore di un’ampia alleanza politica e sociale che ha promosso e guidato la Capitale facendola diventare una moderna metropoli” e un modello di sinistra di governo da esportare sul fronte nazionale. Ma l’azzeramento chiude soprattutto altri capitoli rischiosi, come la scomodissima inchiesta a carico del deputato Marco Di Stefano (già assessore regionale e ai vertici del Pd laziale) o l’affaire che coinvolge il Pd regionale, con un segretario (Fabio Melilli) nel mirino dei suoi nonostante sia stato eletto con le primarie meno di 10 mesi fa.

C’è, infatti, un’altra foto che segna il momento. Ed è quella dell’ultima assemblea del Pd romano, il 27 novembre scorso. C’erano anche i ministri Gentiloni e Madia e il capogruppo Pd in Senato Zanda, che urlava “Marino deve obbedire al partito!”, il governatore Nicola Zingaretti e svariati palamentari. In quell’occasione, mentre Michela De Biase, moglie di Franceschini e assessore alla cultura, scandiva “io a tirare a campare non ci sto, il sindaco è ormai il più famoso gaffeur d’Italia, perché non riesce a uscire da un’impasse in cui si mette da solo”, Lionello Cosentino, “l’amico nostro” dell’inchiesta, chiudeva il cerchio con questo concetto: “Quello che chiedo a Marino, è tener conto della riflessione che viene dall’esperienza del Pd. C’è bisogno di un cambio di agenda, di progetti per le periferie, di scuole aperte il pomeriggio, di punti di aggregazione”. Partendo – questa era l’idea – da una nuova giunta per il Campidoglio, capace di governare quella che sembrava a tutti “una nave senza alla deriva”. Da tornare a controllare.

Una settimana dopo, tutto questo diventa storia antica. Ora tocca ad Orfini, presidente del Pd, che fa parte di un’ala meno compromessa con la gestione dem degli ultimi vent’anni, quindi anche più interessata a trovare un modo di collaborare con Renzi. Orfini è il più giovane presidente che il Pd abbia mai avuto, ma è un ottimo navigatore. Recentemente ha criticato molto Massimo D’Alema, col quale ha iniziato a fare politica e di cui tutti, almeno fino a due anni fa, ne consideravano l’erede e – addirittura – il “clone”. Come si cambia.

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