Bei tempi quando c’era lui, Mauro Moretti, un uomo solo al comando delle Ferrovie. Sbagliava tanto, non ammetteva critiche e aveva irregimentato l’azienda come una caserma. Ma almeno si sapeva chi teneva il bastone in mano. Ora è una babilonia, una guerriglia continua tra l’amministratore delegato, Michele Elia, e il presidente, Marcello Messori.  

Elia rappresenta la continuità ferroviaria, ha l’appoggio della vecchia guardia ed è stato imposto proprio da Moretti al governo. Messori, invece, è un marziano sui binari, un non ferroviere vissuto come un intruso dal corpaccione dirigenziale di piazza della Croce Rossa, inviato in quel posto difficile da Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia nonché amico di carriera accademica, con una missione ardua: dare una sterzata, razionalizzare e vendere il vendibile di ciò che non è strettamente necessario per far circolare i treni.  

I due, Elia e Messori, per carattere si somigliano, gentili e disponibili, propensi alla mediazione, distanti dal credo morettiano dello scontro come ragione di vita. La forza delle cose li spinge però verso il conflitto e infatti non vanno d’accordo su niente: dalla ripartizione dei poteri all’esercizio dell’audit interno, dal Tav tra Torino e Lione alla strategia delle privatizzazioni, dal destino dell’immenso patrimonio immobiliare all’utilizzo della rete telefonica e di quella elettrica di pertinenza ferroviaria.  

Infografica di Pierpaolo Balani
Infografica di Pierpaolo Balani

 

Messori qualche settimana fa ha clamorosamente abbandonato le deleghe per le privatizzazioni trasferendole al consiglio di amministrazione che a sua volta le ha girate a Elia. A quel punto è intervenuto Padoan che se le è riprese trasferendo il compito a un comitato ad hoc. In pratica le Ferrovie sono state commissariate. Elia e il suo squadrone ferroviario giocano come agli ordini di una specie di supercoach fantasma, Moretti appunto. Che da quando è passato alla Finmeccanica non ha smesso di pensare ai treni, continuando a influire per interposta persona, cioè Elia. I due hanno costruito insieme e in perfetta sintonia le rispettive belle carriere ferroviarie, si sentono al telefono tutti i giorni, più volte al giorno. Raccontano che la voce di Moretti cali su Elia perfino nel corso dei consigli di amministrazione Fs e che l’amministratore in carica non faccia niente per dissimulare le incursioni del predecessore. Sulla testa di entrambi pende però la spada della strage di Viareggio, 32 morti per il deragliamento e l’incendio di un treno merci. Entrambi sono accusati di strage, Moretti come capo Fs, Elia come amministratore della rete (Rfi), il processo è in corso e la sentenza attesa tra la fine di gennaio e febbraio. Il nervo è così scoperto che Elia ha voluto insolitamente coinvolgere nella faccenda perfino il consiglio di amministrazione, mettendo i fatti di Viareggio all’ordine del giorno e trattandoli con una specie di controinchiesta rispetto a quella ufficiale dei magistrati in cui si è autoassolto addossando la colpa ai tedeschi proprietari del carro difettoso.  

Lo scazzo Elia-Messori è cominciato subito dopo la nomina di entrambi. Il primo terreno di scontro è stato la ripartizione dei poteri. Poi si sono beccati sull’audit che Messori è riuscito a conservare. Più di recente la profondità del fossato che li separa è stata pubblicamente misurata in Parlamento quando i due, convocati per un’audizione sulla controversa Alta velocità Torino-Lione, hanno mostrato ai parlamentari allibiti due approcci opposti. Ben allineato e coperto dietro le cifre dell’era Moretti il continuista Elia. Non pregiudizialmente contrario all’opera, ma preoccupato di verificare bene i dati sui reali costi e benefici della costosissima impresa l’intruso Messori.  

La posta in gioco vera sono le privatizzazioni. Anche in questo Elia si pone comodo sulla scia del predecessore e ne ripete il mantra: conservare l’unicità dell’azienda (e il relativo blocco di potere con tutte le poltrone connesse), no allo spezzatino di singole parti, mettere sul mercato il 40 per cento della holding facendo incassare 3 miliardi di euro al Tesoro. Messori ha un’idea completamente diversa. Ci sono beni di eccezionale valore che non servono alle Ferrovie quindi andrebbero venduti al miglior offerente incassando probabilmente anche di più. L’elenco dei gioielli ferroviari è lungo, dalle perle come la parte commerciale delle 14 Grandi Stazioni all’immenso patrimonio immobiliare, quasi tutto incistato nei centri storici delle città. Fino alle due reti, l’elettrica e la telefonica. La prima è composta da 867 chilometri di elettrodotti e 9 mila di linee e da sola vale 1 miliardo di euro. La rete telefonica si chiama Gsm-Railway, è lunga 11.500 chilometri e nessuno ha stimato il suo valore. A Elia non interessa, dice che per far andare i treni le Ferrovie non possono farne a meno.

da Il Fatto Quotidiano del 26 novembre 2014

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