Comincia con questo scritto una serie di articoli volti ad analizzare quelli che potremmo definire “cantautori irregolari”, quelli cioè che sono sempre stati percepiti ai margini della canzone d’autore: chi per questioni stilistiche, chi di contenuto, chi semplicemente perché – con un giudizio palesemente arbitrario e comunque discriminante – considerato “troppo di destra”. Saranno scritti cadenzati che analizzeranno ogni volta una canzone in particolare del cantautore di turno, quella che meglio rappresenta la sua irregolarità rispetto allo stereotipo.

Mi permetto di iniziare con un mio conterraneo, che ritengo il miglior cantautore abruzzese di sempre: Ivan Graziani e la canzone Fuoco sulla collina.

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Partiamo da un dato storico: Ivan Graziani è stato il primo cantautore in assoluto a esibirsi sul palco del Teatro Ariston, in occasione della primissima edizione del Premio Tenco, nel 1974, per poi tornarvi solo nel 1980.

Cantautore sghembo e non usuale, prima di tutto formalmente, perché grandissimo musicista. Sembrerà strano, ma il fatto di saper suonare molto bene la chitarra ha rappresentato per Graziani una specie di colpa grave da espiare, perché non piegava le sue canzoni a “sua maestà il testo”, e scuoteva, con pezzi che spesso strutturalmente nascevano non sulla cellula ritmica delle parole, ma sul riff dello strumento.

Fuoco sulla collina fa parte dell’album “Agnese dolce Agnese” del 1979. Siamo sul finire degli anni Settanta dunque, in un periodo di estrema politicizzazione. Solo tre anni prima De Gregori aveva subito un processo vero e proprio, durante un concerto al Palalido di Milano da parte di esponenti della sinistra extraparlamentare. «Suicidati come Majakovskij», fu uno degli inviti più cordiali. Storia nota, qui citata solo per far capire il clima del momento.

Breve digressione tecnica: la canzone di Graziani utilizza nel testo un certo simbolismo evocativo; come spesso accade nella poetica del cantautore teramano, però, la musica sembra essere più chiara delle parole e ci catapulta in un alone di mistero e quasi di pericolo, di minaccia, che parte dall’introduzione sull’arpeggio di un accordo sospeso, e realizza uno strappo e un sussulto immediato con un repentino passaggio, giocando sostanzialmente sulla spola di vibrazione tra due note premute sul “mi cantino”: il fa# e il sol. Le immagini sono elementari e allegoriche: il sogno di un giardino, un uomo misterioso e una collina con luci e ombre concitate, rumorose e indistinguibili.

Se il giardino è un elemento che rappresenta un luogo protettivo, un hortus conclusus rassicurante, la figura dell’uomo lo fa diventare addirittura opprimente. Il ragazzo, l’io poetico, viene in qualche modo bloccato senza la possibilità di andare a combattere sulla collina.

Uno degli aspetti più interessanti della poetica di Graziani è la capacità di descrivere, in maniera tutt’altro che provinciale, un certo innato provincialismo dei giovani abruzzesi. Certi limiti oggettivi del loro carattere, dettati dal pudore, che li portano sistematicamente ad accodarsi a “mode” nazionali solo perché tali, «un complesso di inferiorità nei confronti degli altri; che dico, del mondo! Hai voglia a spiegare a questi ragazzi che non hanno nulla da invidiare a uno di Parma, di Bologna o di Roma. Non c’è niente da fare. Diventano rossi appena espongono una riflessione». [I. Graziani, in M. Bonanno, Ivan Graziani. Il chitarrista, Bastogi, 2005, p. 50].

Dove troviamo, in Graziani, la soluzione a questa paura di non essere accettati e quindi alla voglia di omologazione? Nei valori di provenienza, nella stessa “abruzzesità”.

Se noi, infatti, vediamo nell’uomo di Fuoco sulla collina i valori sani delle tradizioni di provincia, ritroviamo quelli di una civiltà contadina fatta di praticità e piedi ben saldi nella realtà, che caratterizzano un’altra canzone esemplare come Pigro (dall’album omonimo del 1978).

Come accadeva in Pigro con i fini intellettuali del suo tempo, si palesa così in Fuoco sulla collina la presa in giro dell’omologazione alla ribellione a tutti i costi: sia dei ragazzi che dalla provincia vogliono andare in città per “cambiare il mondo”, sia dei rivoluzionari barbuti in generale, massacrati in quello stesso 1979 dal Giorgio Gaber di “Polli d’allevamento”, «nutriti a colpi di musica e di rivoluzioni»: «forse dopo canteremo, a squarciagola canteremo» in Graziani.

In quegli anni, insomma, Graziani era un irregolare vero e proprio che prendeva contromano le mode del momento. E si badi bene: stiamo parlando di un cantautore naturalmente ribelle, che ha scritto pezzi inequivocabili come Taglia la testa al gallo (il primo brano dello stesso album di Fuoco sulla collina, fra l’altro) o Maledette malelingue. Di un cantautore, però, prima di tutto ribelle a qualunque tipo di omologazione. Solo oggi si capisce quanto fosse in anticipo sui tempi, come succede con Gaber.

Certo, in Fuoco sulla collina la cosa è molto più soffusa. Ma, anche se nel sogno, le illusioni di un sedicenne in fibrillazione, che usa persino un linguaggio da strategia marziale per andare su quelle che lui crede siano barricate («farò la strada del fiume, in un’ora sarò su al passo»), vengono brutalmente disilluse da quell’uomo che gli svela con crudezza la mera realtà. Le luci son fari di trattori, «illuso, romantico e fesso», gli dice. In altre parole: «Figlio mio lotta (sempre!), ma con senso della realtà e senza farti strumentalizzare».

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