sentenza-eternitLa vicenda Eternit, in questi giorni all’onore delle cronache come una decisione “scandalosa” per la declaratoria di prescrizione emessa dalla Corte di Cassazione, ha riaperto le polemiche sulla funzione e sulla capacità della giustizia penale a rispondere alle esigenze sociali più pressanti ed emotivamente sensibili.

La questione tecnica è, in realtà, assai semplice: il giudice delle leggi ha accertato che a far tempo dal 1986 l’Eternit non ha più prodotto e dunque, quella, è la data ultima da cui far maturare l’interesse per lo Stato di punire (penalmente) gli accusati. Essendo oramai trascorso un tempo superiore a quello della prescrizione del reato, ed essendo questo un calcolo puramente matematico, la giustizia non poteva fare altro che “adeguarsi” alla normativa vigente. Ciò che appare assai interessante è la risposta che la collettività, la politica e la stessa magistratura hanno avuto a seguito di questo risultato.

In ambito politico si è riaperto il cantiere delle riforme sulla prescrizione dei reati; in ambito sociale e giornalistico si è gridato, per l’appunto, allo “scandalo” ma, fattore ancor più stimolante per un’analisi del fenomeno, i giudici che hanno cancellato la condanna dell’unico imputato, si sono sentiti in dovere di emanare, nei giorni a seguire, una nota che ha sottolineato l’inevitabilità della loro decisione proprio in virtù del calcolo matematico sul tempo trascorso. Peraltro, la magistratura dell’investigazione, ha immediatamente annunciato di voler riaprire un nuovo filone d’indagine, contestando al medesimo “accusato-prescritto” una fattispecie di reato capace di resistere alla tagliola del “tempo trascorso”.

Questa globale presa di posizione a cui fa eccezione, come naturale, solamente la voce dell’accusato, riporta alla memoria quanto sostenuto dall’antropologo Durkheim che, a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento, ha sostenuto come una delle funzioni del diritto penale, anzi la sua funzione preponderante, sia, come accade per la religione, quella di ricostituire la morale del tessuto sociale, leso dall’agire criminale. Anche la pena, per il medesimo autore, svolge, evidentemente, questa funzione di risocializzazione e riaffermazione della coscienza dei cittadini. La volontà di affermare questo giudizio etico sulla funzione del processo è indubbiamente quello che ha scatenato le polemiche, spingendo ad accusare la macchina statale di non essere stata in grado di mantenere la promessa sancita a causa di una disposizione di legge dello Stato medesimo (quella, per l’appunto, sulla prescrizione).

Talmente forte è stata questa visione morale del giudizio che persino la magistratura ha, di fatto, voluto scusarsi verso la collettività. Al di là delle polemiche, l’aspetto da evidenziare è come tali vicende mettano a confronto due morali diverse e contrastanti: da un lato la voglia che il processo moralizzi la società, dall’altro l’etica processuale che, prima di tutto, deve consistere nel rispetto incondizionato delle regole vigenti.

Quale morale potrebbe vantare la macchina giudiziaria se un elemento tanto importante quale il tempo entro il quale punire venisse modulato a seconda dell’impatto sociale delle proprie decisioni? Certamente sarebbe un’immoralità macroscopica decidere “ad personam” quando un delitto è ancora punibile. Vengono richiamate le legislazioni di Paesi che non prevedono la prescrizione del reato come modelli da seguire: non va però dimenticato che anche questi (su tutti gli Stati Uniti) prevedono una tagliola ancor più stringente e cioè la decadenza del diritto all’azione, spesso capace d’intervenire dopo pochissimi anni dal fatto di reato. Questo per evidenziare come sia sempre assai pericoloso spostare il processo da questione tecnico-giuridica a strumento di moralità collettiva.

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