Per comprendere la natura di Podemos, può essere utile partire dal disarmante statement politico che ho ascoltato durante un evento organizzato a Londra nel mese di settembre: “Ci domandano se vogliamo unire la sinistra – apriva retoricamente Íñigo Errejón, stratega politico del partito, seguito da un attento Ken Loach – La nostra risposta è no. Noi siamo qui per creare un popolo”. Altro che costituenti e rifondazioni. Altro che geometrie elettorali per mettere insieme partitini, sette e famiglie politiche. Podemos punta in alto, mettendo a soqquadro le coordinate della sinistra europea, sconvolgendone i metodi, rivoluzionandone linguaggio e militanza. A cominciare dagli intenti.

Nato solo a gennaio di quest’anno, Podemos ha ottenuto un inatteso 8% dei consensi alle elezioni europee dando vita a un’incessante spirale mediatica che ha proiettato gli eredi degli Indignados persino al di sopra dei due maggiori partiti, quello socialista e quello popolare, secondo un recente sondaggio commissionato da El País. Vista attraverso i frettolosi ragguagli della stampa italiana, questa esperienza politica rimane un enigma inspiegabile, la storia di un successo esotico spiazzante e lontano. Presso la sinistra di casa nostra poi, il dramma dell’incomprensione si mischia con quello di una sottile invidia, che al contempo rimarca una distanza. Come spiegarsi d’altronde la storia del leader di Podemos, Pablo Iglesias, una vita nella sinistra radicale spagnola, un vecchio flirt con i nostri centri sociali e ora a capo di una formazione che si è presentata sulla scheda elettorale con l’effigie del suo volto? Come approcciare un partito figlio dei movimenti che preferisce parlare di “casta” piuttosto che di “tecnocrazia neoliberista”, che si rivolge con disinvoltura anche a coloro che non si sono mai sentiti di sinistra invece che ai soliti noti?

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Per chi in Italia ha snobbato con altezzosità e saccenteria le esperienze dei governi populisti dell’America Latina, l’incomprensione è d’obbligo. Le biografie dei volti più in vista di Podemos la dicono lunga a riguardo. Molti di loro si sono formati in anni di collaborazione presso i governi dell’Ecuador, del Venezuela, della Bolivia. Non ne replicano pedissequamente i modelli, ma ne importano lezioni politiche dirimenti. Quella principale è che la costruzione del soggetto popolare non ha niente a che vedere con la somma di fette di elettorato preesistenti: l’idea stessa della costruzione di un popolo si appoggia sulla convinzione di poter sradicare le identificazioni politiche correnti per generarne di nuove. Per fare ciò è necessario alterare sensibilmente il repertorio simbolico e dimostrare recettività verso le istanze di cambio sociale, due mosse che possono mettere in discussione assiomi e particolarismi e che presso la sinistra italiana suonano ad eresia.

Podemos in questo senso intercetta diversi malcontenti che covano presso la società spagnola e li articola attraverso allocuzioni semplici, rifuggendo l’immagine iperelaborata tipica della presunta lungimiranza di sinistra, evitando termini dogmatici e incomprensibili. Unisce così i pezzi più promettenti del senso comune e del nazional-popolare, dà loro vita, li plasma in un discorso fatto di parole e immaginari nuovi e li oppone ad un nemico comune. Chi è il nemico in Spagna, secondo Podemos? È la classe dirigente del Psoe e del Pp, senza distinzione: in un’espressione sola, il regime post-franchista del ’78, così come lo chiamano in molti. Nemici sono anche il sistema bancario, responsabile degli odiati sfratti che hanno scosso il Paese, così come la casta dei burocrati europei, quelli che Pablo Iglesias non si stanca di sferzare nei suoi irriverenti quanto rigorosi interventi al Parlamento di Bruxelles.

Nelle ultime settimane, Podemos ha iniziato un processo di definizione delle proprie strutture (oggi si chiude il processo costituente del partito con la votazione finale dei candidati alle cariche elettive), dei suoi quadri dirigenti, così come dei principi e programmi da adottare. Nella figura di Pablo Iglesias avviene la fusione di orizzontalità e  verticalità, di spinta democratica ed efficienza politica, grazie ad un team collaudato all’ombra dell’Università Complutense di Madrid, dove insegna Scienze politiche. Così, senza snaturare la propria missione di fondo, la sinistra si reinventa, abdicando persino al suo nome e ai suoi simboli più cari. La Spagna, così vicina eppure così lontana.

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