Sarà anche storico, come si sono affrettati a definirlo i media di (quasi) tutto il mondo. Ma l’accordo Cina e Usa sul clima, già raggiunto da mesi ma annunciato con grande efficacia mediatica in occasione del vertice APEC svoltosi a Pechino nei giorni scorsi (altrimenti passato inosservato, nonostante la sua sempre maggiore importanza economica e strategica,visto che i 21 paesi che vi partecipano rappresentano circa la metà della popolazione, del Pil e dell’interscambio commerciale) ha anche i suoi aspetti negativi. Primo perché penalizza le “povere” economie emergenti, costrette a pagare lo stesso prezzo, a correre la stessa corsa di chi è partito molto prima e più dovrebbe pagare, sia perché se da un lato inchioda i due più grossi untori dell’ambiente (Usa e Cina sono responsabili per oltre il 40% delle emissioni di gas serra) alle loro responsabilità e impone loro, dopo anni di pentimenti solo annunciati e lenti negoziati, un vero e proprio “ravvedimento operoso”, dall’altro sguinzaglierà i nuovi predatori dei gas argillosi (o shale gas, le cui compagnie di sfruttamento sono spesso le stesse che operano nel settore degli idrocarburi tradizionali) e, quel che è peggio, i sostenitori dell’energia nucleare. In un mondo che non ha nessuna intenzione di rinunciare al benessere (inteso spesso come spreco), dove la domanda di energia è destinata comunque a salire e dove le energie rinnovabili non sono (ammesso che mai lo saranno) ancora in grado di offrire un’alternativa, non resta che andare a raschiare le rocce (a rischio di provocare terremoti) e rispolverare la vecchia energia “più pulita, sicura e rinnovabile” del mondo: quella nucleare.

Che l’industria nucleare, una delle poche ad essersi davvero globalizzata, nel comune interesse di condividere ricerca, produzione, profitti e manipolazione dell’opinione pubblica, abbia celebrato l’accordo sul clima è dimostrato dall’impennata dei titoli del settore. E non solo delle aziende che producono i reattori, come GE e Westinghouse, ma anche delle compagnie elettriche che li acquistano e li usano per produrre energia, come la Exelon e la Entergy. I loro titoli erano in coma finanziario da mesi, da quando anche negli Usa, dopo il disastro di Fukushima, il dibattito sul nucleare si era fatto economico e finanziario, più che politico e sociale, Nei giorni scorsi hanno subito un rialzo del 10%. Brutto, pessimo segno, perché dagli Stati Uniti il “rimbalzo” del nucleare può arrivare in Giappone – dove nonostante le promesse il premier Abe non è ancora riuscito a far ripartire i reattori – e in tutti gli altri Paesi che hanno deciso di uscire da questo settore rivelatosi sempre più costoso e pericoloso.

L’accordo sul clima rischia insomma di far ripartire il nucleare, quanto meno negli Usa (e nei paesi che usano la loro tecnologia, come il Giappone). La maggior parte dei reattori in funzione hanno più di 40 anni e le grandi compagnie elettriche debbono decidere se chiedere una proroga di qualche anno – a costi di manutenzione sempre maggiori – o ordinarne di nuovi e sostituirli. Quattro delle 104 centrali in funzione negli Usa avevano addirittura deciso di chiudere, considerando il settore oramai non profittevole e decidendo di entrare in quello potenzialmente molto più allettante delle rinnovabili. Stessa cosa vale per il Giappone, dove il premier Abe sta seriamente prendendo in considerazione l’idea di sciogliere le Camere nella speranza di ottenere con nuove elezioni una maggioranza assoluta in entrambi i rami del Parlamento che gli consenta di “forzare” due decisioni tanto impopolari quanto, a suo avviso, inderogabili: l’innalzamenento dell’Iva e la riapertura delle centrali, senza le quali la bolletta petrolifera si farebbe insostenibile (dopo il disastro di Fukushima, il costo dell’energia elettrica in Giappone è aumentato di oltre il 30%).

Ma il pericolo maggiore viene dalla Cina. E’ in Cina che la crescente opposizione popolare alle centrali a carbone (oltre 600) ha portato nel recente passato, ed è destinata crescere ora che la riduzione delle emissioni è diventato un impegno concreto, una forte spinta verso il nucleare. Ed infatti è in Cina che questo settore sta crescendo più in fretta. Attualmente in Cina sono in funzione 21 reattori in otto centrali, e la produzione di energia elettrica copre appena il 2% del fabbisogno nazionale. Ma sono in costruzione ben altri 28 reattori e il piano energetico nazionale – che potrebbe essere ulteriormente modificato – prevede un aumento della percentuali di copertura fino all’8%. Una “torta” che oltre a scatenare gli appetiti locali (le 5 compagnie elettriche, tutte statali, sono note per la loro sfrenata competizione a colpi di tangenti) sta interessando anche le aziende straniere, specie quelle americane e francesi, in lotta per procurarsi commesse e contratti di manutenzione. Una vera e propria corsa al nucleare che rischia di scendere a compromessi con il rispetto delle norme di sicurezza, la manutenzione, le misure di emergenza. Tanto più che anche in Cina, come in Giappone (e a differenza degli Stati Uniti) le centrali sorgono per la maggior parte vicino al mare e nei pressi di grandi città: nel raggio di 70 km dalle centrali di Guangdong e di Lingao ad esempio, zone ad alto rischio sismico, vivono oltre 40 milioni di persone. Possiamo solo immaginare quello che succederebbe nel caso di un incidente come quello di Fukushima.

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