Che da The Endless River dei Pink Floyd fosse lecito (e ovvio) non aspettarsi granché era noto a tutti coloro che anziché aggrapparsi all’ennesimo feticcio discografico, erano giunti alla conclusione (lapalissiana) che i piatti forti non vanno certo serviti per ultimi.

Ciò nonostante la quindicesima fatica (si fa per dire) in studio di uno dei gruppi più importanti e rivoluzionari di tutti tempi non può non destare curiosità e scalpore: a prescindere dal pretesto (un pretesto, appunto) che ha spinto David Gilmour e Nick Mason – gli ultimi dei moicani – a metter mano pesantemente ad un groviglio di idee tutt’altro che risolute: la morte dell’amico e collega Rick Wright scomparso nel 2008, che certo non è un gran favore ricordare così. Anzi.

Con The Endless River quelli che legalmente chiamiamo Pink Floyd abbattono definitivamente i muri (siamo in tema) imposti dalla florida e prolifica dittatura di Roger Waters, negando – fatta eccezione per il singolo Louder Than Words– i compromessi ancora in voga all’epoca dei precedenti A Momentary Lapse Of Reason e The Division Bell.

La sperimentazione diventa anarchia allo stato puro, anzi brado e i minuti passano lenti all’inseguimento di un motivo valido per ricredersi: The Endless River è un sottofondo, di lusso se vogliamo ma pur sempre un sottofondo, che nulla aggiunge (anzi toglie) al curriculum vitae di tre musicisti stellari che qui non sembrano neanche far parte della stessa squadra. La sensazione è di essere di fronte alla quasi totalità degli spartiti incompiuti dei Pink Floyd, che scelgono di riversare su disco tutti i loro abiti inutilizzati: con la strafottenza tipica di chi ha mezzi (e soldi) per farlo, in un periodo – contrariamente a quando queste canzoni vennero scritte – in cui tutto fa brodo e le tante copie vendute di questo bel pasticcio serviranno a risollevare il morale (e le finanze) di molti.

Questo è The Endless River: un parafulmine dal futuro, una pacca sulla spalla a tutti coloro che (ed è qui il successo di certe operazioni) sposano una causa anziché una canzone o un disco, che pensano di dovere riconoscenza e prostrazione ad una band, un complesso di uomini che come tutto nella vita ‘passano’ e ‘muoiono’: spesso non con lo stile e la nobiltà d’animo che li ha portati a scrivere tra le cose più belle mai concepite da un essere pensante (e suonante). A parer mio, se avete voglia di prodigarvi nell’ascolto di questa “compilation di buoni intenti” potete farvi bastare quattro pezzi nei quali è possibile riscontrare il genio e la bontà che furono: Anisina, Allons-y (2), Louder Than Words e Nervana. Niente più.

Così è, se vi pare: seguiranno a The Endless River, è quasi notizia di oggi, altre pubblicazioni di inediti. Bramare nell’attesa rimane difficile, più utile e costruttivo colmare l’attesa ad interrogarsi sulle tante modalità alternative che Mason e Gilmour avrebbero potuto adottare per diffondere questi 18 pezzi: sull’onda lunga di quanto proposto negli scorsi anni magari da Radiohead e Thom Yorke, sicuri che con la filosofia del “pay what you want”, non avrebbero mietuto altrettante vittime.

Per chi cerca l’ennesimo pretesto per non mettere il naso fuori casa, questo disco rappresenta forse la scusa definitiva: chi invece vuole semplicemente indagare come il più bravo dei cronisti non potrà che ascoltarlo con la giusta diffidenza. Tutti gli altri stiano pur tranquilli di non essersi persi assolutamente nulla. Amen.

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