Un insolito ma eloquentissimo sabato di silenzio per il Quirinale. Un silenzio cantatore, si dice a Napoli. Il Fatto Quotidiano e Repubblica danno conto della grande “stanchezza” del capo dello Stato, preludio alle sue imminenti dimissioni nel gennaio del 2015, tra meno di due mesi, e dal Colle non c’è alcuna replica ufficiale. La presa di posizione arriva solo domenica, per “non confermare né smentire”. Ormai è sempre più chiaro, come racconta chi conosce gli umori e i pensieri del capo dello Stato, che Giorgio Napolitano è entrato nell’ultima fase del suo secondo e brevissimo mandato, iniziato nell’aprile del 2013. Il punto di partenza di ogni ragionamento sulla gestione della “sua uscita” è l’articolo 86 della Costituzione: “In caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione”.

I tempi ristretti per l’iter parlamentare
Il termine della convocazione dell’elezione entro quindici giorni è decisivo. Se infatti Napolitano dovesse annunciare la firma delle dimissioni nel messaggio tv di fine anno, secondo un’accreditata ipotesi giornalistica, si aprirebbe un problema di tempi per i grandi elettori che i consigli regionali dovrebbero eleggere nel periodo delle festività natalizie. Il messaggio avrebbe infatti un valore formale e a quel punto partirebbero le procedure previste dalla Costituzione. La questione è già stata affrontata ed è per questo che chi ha consuetudine con Napolitano spiega: “Di preciso sulle date ancora non c’è nulla, la riflessione è aperta e non dimentichiamo che ci sono ancora gran parte di novembre e tutto dicembre. Il presidente valuterà tutto sino alla fine e deciderà forme e sostanza di come dirlo nel messaggio della sera di San Silvestro”. È probabile, dunque, che il capo dello Stato faccia quella sera una sorta di pre-annuncio, senza l’indicazione di una data. Per questa, in ogni caso, non si andrà oltre gennaio, al massimo ai primi di febbraio. Nelle due settimane che precedono la convocazione dell’elezione del nuovo capo dello Stato, la supplenza andrà al presidente del Senato, Piero Grasso, che è anche uno degli aspiranti alla successione e che ieri ha certificato, unico a farlo, la decisione di Napolitano: “Il presidente della Repubblica sono certo darà, come ha fatto e continuerà a fare, il massimo per essere utile al nostro Paese, in qualsiasi modo e con qualsiasi funzione”. Parole per certi versi clamorose, a differenza degli altri esponenti politici che, in modo disperato e ipocrita, hanno continuato a tirarlo per la giacchetta, come già nella primavera fatidica del 2013.

Il crollo di stanchezza e le premure della moglie
A dare l’accelerazione alle dimissioni di Napolitano sarebbero state innanzitutto la preoccupazione e le premure della moglie Clio. Fino a qualche settimana fa, complici le telefonate a Barroso e Draghi, si era formata tra alcuni collaboratori del capo dello Stato la convinzione che il presidente potesse restare fino a febbraio-marzo, con la speranza di vedere l’approvazione della legge elettorale concordata da Renzi e Berlusconi nel patto del Nazareno. Uno spin messo in circolazione soprattutto dagli ambienti renziani. Ma la situazione sarebbe precipitata dall’ultima settimana di ottobre. Napolitano avrebbe avuto “un crollo di stanchezza” e la vigilanza della moglie sarebbe diventata sempre più pressante. Il periodo coincide con quello che il capo dello Stato considera un macigno nel bilancio finale dei suoi circa nove anni di mandato: la deposizione sulla trattativa fra Stato e mafia. La salute è il primo motivo delle dimissioni. Napolitano, il prossimo 29 giugno, compirà novant’anni.

Al premier: “Me ne vado, basta, non insistete”
Il secondo motivo, non meno importante, riguarda l’attuale quadro politico. Da Renzi al berlusconiano Giovanni Toti, ieri molti hanno invocato Napolitano come “garante” per ancora un po’ di tempo. Eppure, Napolitano, per l’ennesima volta, paga lo scotto di una forte delusione. La prima per lo stesso Renzi. Proprio al premier, tra l’altro, il presidente avrebbe ripetuto in due diverse occasioni lo stesso concetto, di fronte alle insistenze di Renzi: “Non insistete e non sperate, io a gennaio me ne vado, non resto oltre”. Di qui il drammatico vertice del Nazareno di mercoledì scorso tra “Matteo” e “Silvio”, che ha messo in evidenza il tatticismo berlusconiano per allungare i tempi sull’Italicum e magari conservare il Consultellum, ossia il Porcellum riformato dalla Consulta. La legge elettorale era la seconda condizione per lasciare con soddisfazione il Quirinale, ma a questo punto il capo dello Stato non aspetterà più.

Decisiva anche la voglia di elezioni a Palazzo Chigi
La delusione per Renzi dipende però da un altro fattore. Il togliattiano Re Giorgio ha capito che a Palazzo Chigi c’è una forte voglia di elezioni anticipate e per non assecondare un disegno che non ha più le forze fisiche per contrastare preferisce andarsene. Per la serie: “Non sarò io a sciogliere le Camere”. La questione passa al suo successore che sarà eletto da questo Parlamento, quello dei 101 di Prodi. In quel momento, la domanda da farsi sarà questa: il primo atto di un presidente appena eletto sarà di sciogliere le Camere? Per molti, un’ipotesi “irrituale”.

da Il Fatto Quotidiano del 9 novembre 2014 – aggiornato da redazioneweb alle ore 15

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