Otto anni sono trascorsi tra l’ultimo disco in studio dell’irlandese Damien Rice (“9”) e questo nuovo lavoro, “My Favourite Faded Fantasy”, appena uscito per l’Atlantic Records. Nell’epoca della continua pubblicazione – tanto da parte di artisti con un importante passato alle spalle, quanto da parte di giovani che da poco hanno iniziato a navigare il tumultuoso oceano del fare musica – otto anni corrispondono ad un’eternità. Eppure nel suo andare controcorrente Damien Rice deve aver seminato davvero bene visto che alle cinquemila persone che hanno partecipato al suo recente concerto di Milano (data che ha aperto il tour), si deve aggiungere un notevole crescendo di attesa ed interesse verso il nuovo lavoro.

Tre album all’attivo e dodici anni anni di distanza dal disco di esordio “O”, lavoro talmente superlativo da rendere il successo una conseguenza inevitabile, guadagnato però alla vecchia maniera: attraverso il passaparola. La terra d’Irlanda si rivela ancora una volta paese baciato dalla fortuna, in grado di regalare cantautori preziosi e tra questi Damien Rice rappresenta la perla più rara. Il cantautore si è preso tutto il tempo necessario per comporre nuove storie che fortunatamente continuano sulla stessa strada degli inizi, quella di un romanticismo avvolto di amore, dolore e speranza. In “My Favourite Faded Fantasy” – prodotto da Rick Rubin – non c’è la cantante e compagna di sempre Lisa Hannigan, presente nei primi due lavori del songwriter.

Questa separazione, non solo artistica, è una ferita ancora aperta ed è facile pensare che quel “I know someone who could play the part but it wouldn’t be the same” dell’iniziale titletrack sia rivolto proprio a lei; inoltre in una recente intervista per l’Indipendent irlandese, Rice ha dichiarato che darebbe via tutto: successo, canzoni, l’intera esperienza, se potesse riavere Lisa Hannigan nella sua vita. Romanticismo talmente puro da lasciare spiazzati, così come lasciano positivamente disorientati le otto storie racchiuse in “My Favourite Faded Fantasy”: la voce di Rice, delicata ma sempre decisa, canta di sentimenti, sensazioni e storie di vita che appartengono a tutti, ma solo lui sembra essere in grado di portarle a galla per poi donargli una forma definita, poetica.

All’eccezionale capacità di messa a fuoco delle lacerazioni umane del cantautore, si affianca l’eccellente lavoro di Rubin che evita di sovrastare le liriche con arrangiamenti pomposi, ma cerca piuttosto di costruire su ogni canzone una cornice delicata, e spesso gli archi la fanno da padrone, come nel finale di “It Takes a Lot To Know A Man” o nell’intro di “I Don’t Want To Change You”. “The Greatest Bastard” è uno dei momenti più laceranti, dove davvero si riesce a percepire l’emozione di Rice ed insieme ad essa anche tutto l’universo di contraddizioni che l’amare trascina con se: “we learned to wag and tuck our tails, we learned to win and then to fail, didn’t we? / We learned that lovers love to sing and that losers love to cling, didn’t we? / Am I the greatest bastard that you know, when will we learn to let this go? / We fought so much we’ve broken all the charm / but letting go is not the same as pushing someone else away”.

Trovare un difetto a “My Favourite Faded Fantasy”, appare impresa impossibile e per quanto si continui a vivere nell’epoca della disillusione, artisti come Damien Rice continueranno a ricordarci che la purezza non smetterà mai di esistere, ma come sempre la dobbiamo cercare negli anfratti. A volte è bello prendere consapevolezza che in fondo condividiamo tutti lo stesso tortuoso destino fatto di amore, dolore e speranza: “Come along, come with sorrows and songs, come however you are, just come / Come along, come let yourself be wrong, come however you are, just come”.

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