Per trattare alcuni argomenti e tematiche ci vorrebbe una sensibilità ulteriore, un pathos, senza patetismi, che riuscisse a rendere, in un’ora di teatro, uno spaccato di realtà, soprattutto quando si parla di teatro civile, definizioni che lasciano il tempo che trovano comunque, di teatro sociale. Purtroppo un’occasione persa dalla banda dell’Atir che ha messo in scena, al Teatro della Limonaia, prima di volare a Stoccarda per alcune repliche, questo “Alla mia età mi nascondo ancora Alla mia età 2per fumare“, per la regia di Serena Sinigaglia (della quale apprezzammo moltissimo “Nozze di sangue” da Garcia Lorca), testo di una scrittrice volutamente anonima algerina, con lo pseudonimo di Rayhana, sotto scorta in Francia perché minacciata e picchiata dai fratelli musulmani proprio a causa dei suoi scritti e delle sue idee progressiste in temi di libertà delle donne e femminismo. Siamo in un hammam nei giorni nei quali possono entrarvi, in alternanza con gli uomini, le sole donne. Una piccola vasca centrale, quasi di fanghiglia e sabbie mobili metaforiche, e tanti panni appesi a fare da cornice.

In questo spazio chiuso, claustrofobico, tra l’acqua che scorre ed il calore fumoso che appanna, le donne si confidano, si confessano, si raccontano. Un luogo che diviene cassaforte di segreti inconfessabili, scrigno chiuso a doppia mandata, un porto franco per essere finalmente libere di dire, pensare, anche di ridere e perché no, di fumare. Si scontrano varie generazioni e vari modi di intendere il ruolo di donna all’interno della società tradizionalista islamica. Potrebbe essere la versione orientale di “Otto donne e un mistero“, almeno nella forma, non certo nella sostanza.

C’è quella che sogna di sposarsi ad ogni costo e che mitizza l’abito bianco e il giorno delle nozze, c’è la madre dell’emigrato in Francia che torna in patria per trovare una buona e devota moglie per il figlio, c’è quella che non può avere figli, c’è l’anziana indottrinata da decenni di bastonate e controllo sociale, c’è la divorziata, c’è la moglie fanatica del terrorista che si è fatto saltare in aria, c’è la gestore del locale, scafata, disillusa, arrabbiata che un po’ fa da moderatrice un po’ da Masaniello e capo popolo di questa congrega spontanea e confusionaria e improvvisata. E poi c’è la ragazza incinta, senza aver contratto matrimonio, che si è nascosta all’interno del bagno turco, con la complicità della padrona senza che le altre clienti sappiano niente e che gli uomini là fuori cercano per punire. Girl power. Le donne fanno ancora paura ad ogni latitudine.

Alla-mia-età mi-nascondo-ancora-per-fumare

E’ un lavarsi violento a volte, mentre la folla inferocita e imbottita di testosterone batte con forza (sulla scena le donne colpiscono il Corano con la mano destra: immagine di una potenza deflagrante) alla porta per entrare e farsi giustizia da soli. In questo clima di grande e profonda empatia con le varie storie intimamente toccanti delle varie voci a confronto, senza soluzione e senza scampo, rintanate, rinchiuse, isolate come ne “Le Troiane” di Euripide, come il ragno nel buco, nella sua salvezza effimera a tempo, un solo carattere esce fuori dal coro: la figura interpretata dalla, sempre bravissima, Arianna Scommegna (esemplare nelle recenti uscite “Il ritorno a casa” di Harold Pinter per la regia di Peter Stein, o “Potevo essere io” testo di Renata Ciaravino) nei panni dell’aiutante massaggiatrice che, addirittura in milanese!, tra piccoli piagnistei e infantilismi a profusione, ci spiega che l’unica ragione della sua vita sarebbe il matrimonio.

In mezzo a drammi di ogni genere e a qualche ironia seppur involontaria delle protagoniste vessate e schiacciate dall’ambiente infelice nel quale hanno dovuto nascere e crescere come schiave, mute, percosse, sempre sotto schiaffo, senza nessuna tutela e senza voce in capitolo e soprattutto senza attenzioni né amore, la Scommegna-massaggiatrice è sempre sopra le righe, fuori sincrono rispetto al collage delle colleghe ben assortite, a tratti inaudibile, facendo perdere sostanza all’intorno e rendendo il tutto una soap.

Ci si concentra sul suo personaggio che diventa ingombrante di risolini e continui gesti “vezzeggiativi”, gigioneggiamenti e versetti, urletti adolescenziali da “Sposerò Simon Le Bon“. Tra violenze sessuali reiterate, gravidanze non richieste, nessuna scelta, nessuna alfabetizzazione, matrimoni combinati, il velo obbligatorio, nessuna libertà di pensiero, di movimento, di azione, per non parlare della possibilità di fare politica o di esprimere una loro volontà, in tutto questo magma infuocato si esce dalla piece con un’unica immagine in testa, una saltellante, gongolante, eccessiva ironia bambinesca reiterata, sempre spinta e forzata.

Non convincono neanche i pochi contatti fisici che non hanno quell’impatto che avrebbero potuto dimostrare, molto trattenuti e contenuti, così come il balletto-coreografia in stile thriller e nel complesso il tutto è troppo “urlato”. Un errore di valutazione questo che penalizza e scredita il buon lavoro attorno, le interpreti di valore, capitanate dal “collante” fiero rappresentato da Marcela Serli, la scena (di Maria Spazzi) ed il testo. Rivedibile con più sobrietà.

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