La Rumble in the Jungle come l’apoteosi dell’evento sportivo che trascende la dimensione atletica, e si riempie fin da subito di potenti e molteplici significati extrasportivi. Se sul tappeto la battaglia tra George Foreman e Muhammad Ali è epica, quando ci si allontana dal ring, e poi dallo Stade du 20 Mai, per le vie di Kinshasa battute dalla pioggia si incontrano premi Pulitzer e premi Oscar, dittatori africani e servizi segreti occidentali, mafiosi e Pantere Nere. E si capisce che quel 30 ottobre 1974 sta segnando un’epoca. A bordo ring c’è Norman Mailer, uno che è imputato insieme a Hunter S. Thompson (anche lui presente all’incontro, inviato del Time), Truman Capote, e Tom Wolfe di aver rivoluzionato il giornalismo.

Il racconto di quella sfida nel libro The Fight (1975) subito trascende la tecnica pugilistica, cui per altro è dedicato un bellissimo capitolo, per parlare di vita, sport, estetica e religione. Insieme a Mailer poi ci sono anche James Brown, B.B. King e Spike Lee, tra gli altri, ad apparire nel pluripremiato documentario When We Were Kings (1996) di Leon Gast, che racconta anche il contorno musicale della manifestazione, definito per la sua maestosità la Woodstock nera. Mentre nel film biografico Alì (2001) di Micheal Mann la Rumble in the Jungle è il centro di gravità di un racconto che parla della storia di un paese attraverso gli omicidi di Malcom X e Martin Luther King, combattenti per i diritti civili dei neri uccisi a freddo da mano bianca. Perché tutto è nero quella notte, dal centro del ring fino alla periferia di Kinshasa, e tutto deve esserlo. La negritudine, sentimento di appartenenza e rivolta, di schiavitù e repressione, non può essere raccontata meglio che dalla sfida tra due pugili neri in un paese devastato da un dittatore nero al servizio del potere bianco.

Ali, il sovversivo convertito all’Islam cui anni prima è tolto il titolo per essersi rifiutato di combattere in Vietnam (“non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro” la sua celebre frase), contro Foreman, il “bianco travestito da nero” che sventola fiero la bandiera a stelle e strisce alle Olimpiadi di Messico 1968, pochi giorni dopo che John Carlos e Tommie Smith salgono sul podio con il pugno chiuso. Sul tappeto la battaglia è meravigliosa, ma più ci si allontana dal ring, tra le urla degli oltre centomila spettatori estasiati, più si sente l’odore della morte degli oppositori politici trucidati in quello stesso stadio da Mobutu Sese Seko, il dittatore nero messo lì dalla Cia per massacrare il suo popolo e arricchire il Belgio e gli Stati Uniti dei bianchi. E se Mobutu, come molti dittatori prima e dopo di lui, ha la capacità di sfruttare la dimensione mediatica dell’evento come legittimazione politica a livello internazionale, il match è anche il primo organizzato da Don King, il più grande promoter di incontri pugilistici i cui legami con la mafia newyorchese di John Gotti sono stati a lungo indagati. Per questo e molto altro, tra cinema e letteratura, musica e rivolte, mafia e dittature, il gancio sinistro di Muhammad Alì all’ottavo round della Rumble in the Jungle non è diretto a George Foreman, ma alla storia.

da Il Fatto Quotidiano del 30 ottobre 2014

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