Una donna e due figli sono stati trovati morti in casa a RomaSecondo un conteggio approssimativo, per il 2014, sono 11 i bambini e le bambine vittime di delitti compiuti dai genitori. Si pone l’accento sulle stragi familiari quando è l’uomo a compierle. Allora si parla di padri molesti, che non accettavano la separazione, violenti, egoisti, possessivi. Quando è la madre a uccidere i figli, invece, si tira fuori il tema della depressione, ponendo uno stigma su una malattia che riguarda tantissime persone che di certo non vanno in giro ad ammazzare i familiari, ovvero, come sta accadendo in questi giorni, si inserisce il delitto tra quelli che vengono giustificati perché sarebbero spinti da una cultura, una religione e una etnia lontane dall’italica civiltà.

Ciò di cui non si parla è il fatto che i figli sono considerati delle proprietà. A spingere gli assassini, donne o uomini che siano, a commettere delitti o a progettare suicidi, non senza aver pensato di trascinare con sé i figli, è una cultura del possesso che non saprei definire in altro modo. I figli sono miei e ne faccio quello che voglio. Meglio saperli morti che in mano a chiunque altro. Meglio saperli morti perché solo io dispongo a mio piacimento della loro vita. Così pensano, forse, quelli che immaginano di doverli difendere da chiunque meno che da loro stesse. Il punto è che i figli diventano un’arma di ricatto durante i litigi tra coniugi, nelle separazioni, nei momenti più duri delle vite di questi adulti drammaticamente egoisti. Vengono considerati oggetto di nostre decisioni.

Li portiamo dove ci piace, li trattiamo come vogliamo, pensiamo di godere di totale impunità se gli molliamo uno schiaffo, ci stupiamo della violenza altrove senza guardare a quel che succede sotto il nostro naso o a quello che noi facciamo. Un figlio ucciso, come è stato, per esempio, nel caso di quel ragazzino ammazzato dalla madre dentro una tenda, lì dove la madre lo aveva portato in campeggio, rappresenta una questione rimossa. Si tratta di una faccenda che mette in discussione la teoria secondo la quale sono solo gli uomini, per natura, a compiere certi delitti, mentre le donne, così empatiche e materne, sfuggirebbero al controllo, solo se molto malate o vittime di chissà quale atroce destino.

Dunque gli uomini che uccidono, e poi si suicidano, sarebbero dei bruti che lucidamente compiono delitti avendo un ghigno feroce stampato in faccia e godendo di azioni sadiche. Le donne invece, anche quando ammazzano, restano in una zona rimossa, pietosa e compassionevole, in cui non la si considera come un essere umano, anch’esso in grado di sbagliare. Anzi: quando si parla di donne che uccidono i figli se ne parla come di mostri, perché mancherebbero delle magnifiche qualità intrinseche a tutte le donne o sarebbero delle creature aureolate corrotte, però, da religioni e persone irragionevoli. Si immagina che gli infanticidi accadono solo in situazioni di degrado e non si indaga in alcuna direzione diversa da quella superficiale che vediamo descritta.

La mamma è sempre la mamma e non si può parlarne male, non si può ragionare di prevenzione per evitare delitti che producono vittime su vittime. Siamo qui, invece, a dover produrre l’esaltazione del materno, perché diversamente il welfare andrebbe in malora, e dunque puoi vedere donne, lettrici, che annegano nelle contraddizioni. Si arrabbiano moltissimo, e giustamente, se leggono che uno ha ucciso una donna in preda al raptus, ma se è di una donna che i media parlano in questi termini nessuna batte ciglio. Va tutto bene. E’ tutto ok. Il punto è, care, che quelle donne che hanno bisogno di aiuto per vivere meglio e per non commettere un delitto, come faranno a capire, chiedere, trovare luoghi di ascolto, se quel che si dice di loro è che sono sempre vittime o, altrimenti, che non corrispondono neppure al profilo della perfetta donna che tanto piace alla patria?

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