Giorgio Napolitano non medita più di dimettersi tra dicembre e gennaio. Lo sentiva, lo sapeva, ma lo ha capito ancora una volta quando ha dovuto riprendere in mano il telefono per chiamare José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, e placare la sua furia sui conti pubblici italiani. Nonostante il protagonismo irruente di Matteo Renzi, nonostante la sua personale stanchezza, nonostante l’esasperazione sempre più evidente per l’inconcludenza di molti attori della politica, Giorgio Napolitano sente ancora “il dovere di restare”, come riferisce chi è abituato a frequentare il Quirinale. Ed è questa la principale notizia della settimana, al di là di Leopolde e piazze, e che è destinata a ridisegnare gli scenari politici tracciati sin dall’estate. Cioè: dimissioni di Napolitano con il nuovo anno ed elezione del suo successore da parte di questo Parlamento. A quel punto il nuovo capo dello Stato espressione del patto del Nazareno tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi avrebbe anche potuto sciogliere le Camere, in base ai piani del premier e del Condannato. Adesso, invece, questo piano salta. Ecco, quindi, come va interpretata e tradotta quella frase messa come una pietra nel mezzo del discorso ai Cavalieri del lavoro, giovedì scorso al Quirinale: “Occorre varare, con passo celere e determinazione, cambiamenti essenziali. In questo senso continuerò a svolgere il mio ruolo di garante dell’unità nazionale, di tutore di regole che siano realmente tali e non paraventi tesi a difendere l’esistente. Continuerò a operare in questo senso nei limiti delle mie forze”. Un passaggio in cui il verbo “continuare” è ripetuto due volte e prevale sui “limiti delle mie forze”.

Le telefonate di Draghi e il “ruolo fondamentale”
È stata la spola fatta dalla legge di Stabilità tra Palazzo Chigi, la Ragioneria generale dello Stato, Bruxelles e il Quirinale che ha consolidato nel capo dello Stato l’idea che il suo ruolo è ancora centrale. Mario Draghi, quando vuole lumi, chiama lui. Di più: il credito che gli viene attribuito dalle cancellerie occidentali e dai vertici dell’Unione europea lo ha convinto che il suo ruolo è addirittura “fondamentale” in un momento di persistente crisi, economica e istituzionale. Di qui anche il sostegno fornito ieri a Renzi nella battaglia contro la linea tedesca, seguito al placet della manovra: “Ho letto la bozza del documento del Consiglio europeo e ho notato che il termine ‘austerity’ questa volta non compare: per evitare nuove polemiche qualcuno ha accettato di non menzionarlo, forse perché mosso da qualche complesso di colpa”. Napolitano la pensa così: sente tutta la “responsabilità” del suo ruolo e con questo senso di “responsabilità” gli attori della politica, dal primo all’ultimo, si dovranno realisticamente confrontare per altri mesi. Altro che derby democratico per la successione al Colle, tra Roberta Pinotti e Anna Finocchiaro.

La decisione estiva di andarsene a gennaio
La scelta di Re Giorgio maturata in questi giorni non è però stata facile. Perché le telefonate di Barroso e Draghi non sono un elisir che ringiovanisce. L’età (90 anni il prossimo 29 giugno 2015) e soprattutto la stanchezza restano. Appena tre mesi fa a luglio, Napolitano, parlando ai cronisti parlamentari per la cerimonia del Ventaglio accentuò proprio quest’aspetto: “Noto, d’altro lato, che si tende a omettere l’altra riserva da me più volte richiamata, quella relativa alla sostenibilità , dal punto di vista delle mie forze, di un pesante carico di doveri e funzioni. E quest’ultima è una valutazione che appartiene solo a me stesso, sulla base di dati obiettivi che hanno a che vedere con la mia età, a voi suppongo ben nota”. Chi lo conosce bene spiega infatti che il capo dello Stato avverte “il peso dell’impegno preso” sin da quando ha accettato il bis del mandato, un anno e mezzo fa. Disse di sì, assicurano gli amici, dando un dispiacere alla moglie che sperava finalmente in una vita più tranquilla, solo perché i partiti si impegnarono a fare le riforme. Lo giurarono e spergiurarono. Durante l’estate, dunque, al Quirinale si era anche ragionato sui tempi e a qualcuno non dispiaceva l’idea di un addio durante il messaggio di Capodanno, se ne erano valutati i pro e i contro.

I timori: “Se domani non mi dovessi alzare?”
Tutte queste ipotesi sono state al momento archiviate. Non facilmente. I suoi amici si sono divisi. Da un lato chi ha sostenuto, in modo pessimista, che anche questo “sacrificio” rischia di essere inutile. E lo stesso presidente, ragionando, si sarebbe lasciato scappare una frase drammatica: “Cosa succederebbe se domani mattina non mi dovessi svegliare?”. Dall’altro, invece, i fautori della “responsabilità”. Napolitano, alla fine, ha abbracciato questa linea. “Lasciare senza aver firmato né la nuova legge elettorale né la nuova Costituzione e con i conti in disordine, per lui a questo punto sarebbe una sconfitta” rivela chi gli ha parlato di recente. Il presidente vorrebbe riuscire a mettere il suo autografo almeno sotto la nuova legge elettorale. Vede il traguardo a un passo, perché l’Italicum poteva vedere la luce entro l’inverno, ma ogni volta si ricomincia daccapo. Ora di nuovo modifiche, balletti sui diversi modelli, aperture e chiusure. Un teatrino che sfinisce la pazienza di Napolitano e gli fa sembrare una chimera le dimissioni a compito concluso. Ma l’idea di lasciare senza una nuova legge elettorale, con un Senato che elegge il suo successore per l’ultima volta e un governo che chissà quanto dura gli appare sempre più come una prospettiva destabilizzante. Le urne saranno ancora il piano B di Renzi?

di Fabrizio d’Esposito e Chiara Regini

da Il Fatto Quotidiano del 25 ottobre 2014

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