Per lei partire è stato un piacevole salto nel buio. Francesca Re, 30 anni, a Roma era un avvocato, aveva un lavoro che le piaceva e che le regalava grandi soddisfazioni. Lo stesso, però, non era per Claudio, quello che poi sarebbe diventato suo marito. A causa del difficile momento economico, “rimanere nella capitale per lui, un ingegnere civile esperto in simulazione di flussi, era praticamente impossibile”, spiega Francesca, che ha raccontato la propria storia di emigrazione a ilfattoquotidiano.it nell’ambito del progetto di data journalism GenerationE.

Così, nel 2012, quando per il suo compagno arriva un’offerta di lavoro da Doha per pianificarne la mobilità in vista dei Mondiali di calcio del 2022, la decisione diventa facile ed entrambi si ritrovano su un volo intercontinentale con un biglietto di sola andata. Destinazione: Qatar. “Il percorso di studi che avevo fatto, una laurea in diritto penale, in realtà era abbastanza orientato alla vita in Italia – confessa Francesca –. Anche se ho fatto un Erasmus all’estero di 9 mesi, le mie scelte successive non sono state influenzate da questa esperienza. Ora penso che aver dato ai miei studi sin da subito un’impronta più internazionale forse mi avrebbe fatto comodo. Successivamente, ho iniziato a sentire un po’ il desiderio di muovermi perché nonostante la crisi non mi avesse ancora colpito direttamente, la percepivo comunque – confessa Francesca –. Poi quando si è in coppia, le scelte riguardano due persone e si fanno insieme”. E se la sfida di ricominciare in un Paese straniero era grande, lo stesso si poteva dire del suo entusiasmo: “Non ero mai stata in Medioriente e l’idea di trasferirmi in una realtà completamente diversa mi affascinava. Pensavo potesse essere un’esperienza personale e professionale molto formativa”. E così è stato.

“Mentre lavoravo a Roma – racconta – ho fatto anche un dottorato di ricerca in diritto pubblico. Così il primo anno qui in Qatar l’ho dedicato alla tesi, poi è arrivata un’opportunità nello studio presso il quale lavoro attualmente. All’inizio è stata una collaborazione molto lenta: si trattava di andare a prendere un caffè ogni tanto – specifica Francesca – poi ti davano da fare qualcosa, insomma è stato un lungo corteggiamento reciproco. Poi a luglio 2013 sono tornata in Italia per discutere la tesi e al mio ritorno a Doha ho iniziato una collaborazione a tempo pieno come legale”. Pronta per una nuova prova: “E’ stato un po’ un ricominciare da capo – spiega – perché ti trovi in un contesto in cui la legislazione è completamente diversa e integrata con il sostrato culturale e religioso che caratterizza questi sistemi giuridici islamici in particolare. Mi sono un po’ dovuta reinventare nel settore commerciale, delle consulenze legali alle aziende e della contrattualistica. E una volta superato l’ostacolo della lingua, visto che lavoro in inglese, e con parecchio studio iniziale, lavorare qui non è affatto impossibile. La vedo come un’esperienza che mi sta dando un valore aggiunto: se un giorno dovessi tornare in Italia avrò qualcosa in più”.

Anche integrarsi non è stato un problema: “Sono stata accolta benissimo: lavoro in un contesto internazionale con qatarioti, sudanesi, egiziani, palestinesi. Per me il problema dell’integrazione non si è proprio presentato, anzi: uno dei miei ricordi più belli qui è quando mi sono sposata in ambasciata. E’ venuto tutto lo studio a farmi una sorpresa, sono stati come una famiglia per me”. E al di fuori del contesto lavorativo “non ci sono grandi imposizioni, ovviamente nei limiti del rispetto della cultura che ti sta ospitando”. Certo, ci sono aspetti che Francesca giudica negativi, come l’essere vincolato a uno ‘sponsor’ (una persona fisica o giuridica, ndr), che può anche decidere di negare il permesso d’uscita senza il quale non si può lasciare il Paese, ma della sua esperienza ama soprattutto “l’apertura all’altro e al diverso che ti dà il vivere in un luogo dove il 70 per cento sono espatriati che provengono da tutto il mondo”.

E se da un lato prevale l’apertura verso altre nazionalità, dall’altro rimane un legame profondo con le proprie radici. “Prima o poi vorremmo tornare, però per il momento non ci sembra una cosa verosimile”. Già tornare in Europa “significherebbe avvicinarsi molto, non solo geograficamente, ma anche culturalmente: io mi sento cittadina europea, per me è un grandissimo valore”.  E ciò che la lega all’Italia non è solo una questione di affetti: “Andare via è stata una scelta lavorativa, ma sento comunque un senso di appartenenza, sociale e politico, al mio Paese che non vorrei abbandonare. La mia identità nazionale si è in qualche modo rafforzata, e, guardando le cose da un’altra prospettiva, è anche maturata”. E se il concetto di ‘casa’ è comunque vincolato all’Italia, qualcosa è cambiato: “Quello che ho notato è che quando partiamo non diciamo ‘andiamo in Italia’, ma ‘torniamo’ e allo stesso modo ‘torniamo a Doha‘. Quindi forse vivere all’estero significa questo: avere più case in cui tornare”.

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