Per cominciare, come tutti, parliamo del lavoro dei giovani. Viene trattato come un problema sociale, tipo quartiere a luci rosse, la città a dimensione umana, le energie alternative, le piste ciclabili, i presidi sui territori o, se volete, il “jobs act”, che prende il nome americano proprio per sembrare un’altra cosa, ma è poco più di una esortazione. Non è vero che manca il lavoro dei giovani. Il lavoro manca e basta. Infatti, se guardate bene, sono in movimento due scale mobili, una sale, quasi vuota, verso porte chiuse. È quella del lavoro e di tutti i suoi “acts” che dovrebbero garantire la ripresa (invece è il contrario, è la ripresa, se ci fosse, che garantirebbe il lavoro). L’altra scende, gremita di licenziati, esodati, prepensionati e precari già dismessi, che ha due nomi: vista dal basso e tra la gente, è la disoccupazione. Vista dall’alto, da chi spinge giù dalla scala, è risanamento. Si ottiene chiudendo, vendendo, spostando una grande impresa dall’altra parte del mondo, realizzando festosamente un “merger” (fusione) di aziende diverse, in cui metà del personale è in esubero, rendendo smilza e moderna una impresa che va bene in modo da “premiare” investitori e manager liberandosi dalle persone.

Da un certo numero di anni le persone sono sempre in esubero. Sul problema si affacciano due esperti. Uno è il Nobel per l’Economia Paul Krugman che, sul New York Times del 3 giugno scorso, difende e sostiene Thomas Picketty nella sua affermazione che “si consolidano ricchezze sempre più grandi e sempre più lontane dai livelli della povertà, che sono in continua espansione”. E aggiunge: “L’ineguaglianza fra vertici irraggiungibili e condizioni invivibili è stabile in un anno ma anche in dieci. Non si sono viste tassazioni, trovate, espedienti, benefici che abbiano intaccato la diseguaglianza, salvo le tasse sui ricchi che tendono a diminuire il loro contributo e ad aumentare la distanza da coloro che sono esclusi dalla ricchezza”. Cioè il lavoro. 

Ed ecco l’altra voce. Alan Friedman (Il Corriere della Sera, 8 agosto). Non fate caso al dislivello. È una buona testimonianza di cultura del tempo. “Il motivo principale per cui l’economia italiana continua a essere anemica, è la mancanza di modernizzazione. (…) Senza un costo del lavoro ragionevole, una vera flessibilità del mercato della occupazione, una migliorata produttività, l’Italia non potrà progredire (…). Ora c’è Renzi, che prova a spingere l’acceleratore ma inciampa nei gattopardi del suo partito, o nelle resistenze di Sel e dei Cinquestelle. Ma Renzi deve, se necessario, ‘sbattere la testa contro il muro’ e proporre cambiamenti strutturali che non faranno piacere a Susanna Camusso”. In altre parole, come in altri tempi si diceva, per descrivere una drammatica alternativa, “O la borsa o la vita”, adesso l’alternativa sembra essere: “O la ripresa o il lavoro”. Ovvero è il lavoro che si mette in mezzo, con le sue ottuse pretese, fra noi e il benessere.

“Noi” È una piazza polverizzata senza partiti e senza movimenti, dove ciascuno diffida di tutti, non appartiene a niente, e si sente personalmente danneggiato dalla paga di A, che ancora lavora, e dalla pensione di B, che è sicuramente un privilegio. Ma non si sente danneggiato dalla ricchezza di C, meglio se immensa, perché è una buona garanzia (come si è visto, infondata) che il ricco non ruba e non depreda lo Stato come insegnanti, giudici e impiegatipubblici. La strategia vincente, al momento, è la guerra tra poveri, tra chi vive di lavoro dipendente o ne ha le pensioni, tra sindacati, tra movimenti che vorrebbero difendere il lavoro. A essa è stata aggiunta la guerra generazionale, in modo da essere sicuri che i vecchi che hanno lavorato e lasciato nel lavoro la loro testimonianza, non abbiano rispettabilevoce in capitolo. Ogni anziano deve apparire come il vero ostacolo ai diritti di un giovane. L’antipolitica è stata poco a poco trasformata in anti-lavoro, e guerra fra chi non ha. Piace che si mandi via gente alla Rai. Certamente sono abusivi. Piace mandar via gli statali, riciclando tutte le storie dell’impiegata che chiude lo sportello, benchè ci sia la coda, per fare la spesa. Circola una curiosa antipatia per l’Alitalia, e la persuasione che le centinaia di esuberi siano perdigiorno finalmente stanati. Tu hai il mio posto. O un posto che io occuperei molto meglio.

Questa acredine può tenere fermo e isolato il lavoro, mentre altri provvedono a spezzarlo, spostarlo, delocalizzarlo, privarlo di dignità, trasformarlo nella implorazione di certi cortei di fronte alla fabbrica vuota. È strano, ma in un momento così drammatico non esiste un partito del lavoro. Non esiste chi dice, con autorevolezza e ascolto, che il lavoro non è elargizione, non è spreco, non è spesa buona ma impossibile, non è una trovata politica e non è neppure classe. È la forma necessaria di un tipo di società, quando ha raggiunto un grado di civiltà che credevamo il nostro presente. Infatti è la società descritta dalle Costituzioni europee del dopoguerra, e – con particolare enfasi e attenzione – dalla Costituzione italiana.

C’è una risposta. Il lavoro (che non sia precariato o lavoro a giornata, per quanto travestito da stage) ha senso nella lunga durata delle strutture sociali, quando si produce ad esso e si investe nella ricerca per il futuro. Ma la vita si è contratta tra lo spasimo delle borse, dove conta solo ciò che si incassa subito, e lo spasimo del potere, che deve compensare subito perché non dura. Nella vita breve conta la tangente, la distanza esagerata fra la base (tutti) e il vertice di ignoti proprietari. Conta la delocalizzazione e la fuga. Tanti ce l’hanno fatta, nel mondo del lavoro negato, abolito o umiliato, vissero a lungo felici e contenti.

Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2014

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