La linea dell’Accademia degli Artefatti è chiara e nota da anni. Il gruppo romano fa sponda fin dagli esordi con la letteratura inglese, dal Bardo fino ai drammaturghi contemporanei, Martin Crimp con “Tre pezzi facili”, che valse al regista Fabrizio Arcuri e compagni un Premio Ubu, passando per le dieci declinazioni da Mark Ravenhill con il progetto “Spara, Trova il tesoro e Ripeti”, adesso con i cinque step da Tim Crouch sull’approfondimento di cinque personaggi shakespeariani “minori”. Dal generale Banquo, in “Macbeth”, al puritano Malvolio (visto al Teatro della Limonaia nella scorsa edizione di “Intercity” proprio con Crouch in scena), tratto da “La dodicesima notte”, dalla fata Fiordipisello, attiva ne “Il sogno di una notte di mezza estate”, a Cinna, poeta in “Giulio Cesare”, fino a Calibano, mostro ne “La tempesta”.

Abbiamo potuto vedere, al festival pratese “Contemporanea, le ultime due trasposizioni. Davanti al nome del personaggio, nel titolo originale come nella versione degli Artefatti (la compagnia ha compiuto venti anni nel 2011), sta quell’“Io” con una virgola al seguito e l’aggiunta del nome del personaggio sviscerato: “Io, Cinna” ed “Io, Calibano”. La propensione di Arcuri e soci punta dritto, come direzione di lavoro e di intenti, su un’indagine del Potere, sull’analisi delle dinamiche della comunicazione che portano alcuni uomini sul tetto del mondo e tutti gli altri nella polvere. E’ una scelta, una mission, una vocazione che fa del teatro dell’Accademia un teatro civile che, attraverso un linguaggio contemporaneo, riesce ad entrare nella materia fluida del presente, non soltanto fotografandolo e rappresentandolo nuovamente, ma, senza per questo dare certezze e soluzioni, aprire porte, respiri e spazi a nuove riflessioni, meno semplicistiche, vergare parentesi per comprendere meglio fenomeni liquidi e volubili.

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Cinna e Calibano hanno come loro dirimpettaio un uomo di Potere, che sia Cesare o Prospero, che davanti a loro si apra Roma come Cipro. Cinna il poeta (l’escamotage della scrittura collettiva di una poesia sotto dettato è stata però fastidiosa quanto inutile) muore perché non voleva essere coinvolto, non voleva prendere parte né schierarsi nei momenti successivi alle Idi di marzo. Il popolo, la folla e la piazza qui viaggiano sui grandi video sul fondale: Piazza Tienanmen, Gaza, celerini in azione, idranti per “lavare” manifestanti. Invece che scrivere una rivoluzione, invece che con le proprie parole sobillare o creare una cospirazione per insorgere contro il tiranno, ha scritto d’amore. Certo Cinna non era Pasolini, per coraggio e presa di posizione. Per questo meritava la morte? Opposte fazioni, i buonisti e gli integralisti. Per che cosa morire? Per cosa vivere? Ci chiede l’attore, capace Gabriele Benedetti di stare in perfetto equilibrio in bilico tra dentro e fuori la scena, mentre scanna un pollo spennato, già morto (caso che ricorda, ma profondamente dissimile al 2005 quando, nello stesso festival, in una performance del regista Rodrigo Garcia, in scena veniva “torturato” ed infine ucciso un astice; evento per il quale furono denunciati sia l’argentino che il direttore Edoardo Donatini).

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Il pollo siamo noi, spostati dalle parole che i potenti lanciano dai loro scranni, dalle tv, dai megafoni. Abbiamo bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno per non sentirci soli, abbandonati e senza una meta. Cinna aveva la possibilità di dare un senso alla sua carta, ai suoi versi. Si chiede che cosa può fare un poeta, che cosa può fare la poesia? La domanda è: essere coinvolti o stare ai margini? Alla fine il “nostro” paga colpe non proprie, perché scannato dal popolo che in lui riconosce il suo omonimo che ha realmente partecipato alle coltellate a Cesare al Campidoglio.

Calibano invece, da sempre mostrato come essere informe ed ignobile, servo da spregiare e disprezzare per la sua estetica e per la sua stupidità, qui è colui che è stato invaso che niente può fare contro l’oppressore mellifluo. E’ la Palestina con Israele o gli Indiani d’America con Colombo, gli iracheni contro Bush o gli argentini nelle Malvinas. La scena è un subbuglio-agglomerato di oggetti alla deriva colorati, di valigie, di canotti che ricordano i barconi sbattuti dalle onde nel Mare Nostrum in un post naufragio, in una Cast Away di catini ed innaffiati dove il Venerdì di Robinson Crusoe sono paperelle galleggianti da vasca da bagno con le quali litigare e discutere. Tutto è al limite della parodia e dell’improvvisazione forzata in questo Luna Park psichedelico dall’estetica leggera ma dal profondo significato. Cinna e Calibano sono stati, per vie diverse, sconfitti, ingabbiati, messi all’angolo. Cinna nel suo menefreghismo intellettuale sopra le parti e Calibano prima assecondando il Padrone, poi ribellandosi quando ormai era troppo tardi e le catene, psicologiche e fisiche, erano già state strette a doppia mandata. Entrambi sono stati succubi, hanno accettato regole altrui prendendole per buone, hanno inneggiato al vincitore, sono saliti sul suo carro anche se li hanno fatti scendere e li hanno messi a spingere. Il potere maciulla chi non ce l’ha.

Prato

 

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