Assecondare le richieste della Comunità internazionale e decidersi per un’invasione di terra o lasciare che la città di Kobane capitoli definitivamente in mano a Isis? Con i terroristi dello Stato Islamico ad un passo dall’Europa, la Turchia esita ad intervenire nella cittadina siriana a pochi km dal suo confine. Perché il governo di Ankara non interviene nonostante il pericolo che incombe sul suo Paese e sul continente europeo?

“Intervenire significa anche parlare con la comunità curda – spiega Marco Di Liddo, analista del Centro Studi Internazionali – in questi anni, il presidente Erdogan ha voluto resettare i rapporti coi curdi, avviando un difficile dialogo, ma sempre mantenendo una posizione di forza. Se ora la Turchia interviene a Kobane, Erdogan si vede costretto a parlare coi curdi, che saranno ulteriormente legittimati e avanzeranno altre richieste. Il nodo cruciale, il dilemma di fronte a cui si trova ora il presidente turco è combattere e sconfiggere sia Isis che Assad, ma minimizzando i benefici per la comunità curda. Ankara vede ancora con preoccupazione l’ipotetica formazione di uno stato curdo ai propri confini, elemento che potrebbe spingere la propria comunità curda a seguirne l’esempio.”

Del resto, la Comunità internazionale ha fortemente legittimato i curdi, nel momento in cui si è deciso l’invio di armi ai peshmerga iracheni. Ma la lotta contro i fanatici Daesh ha ottenuto anche un altro risultato: “La mobilitazione curda contro Isis ha messo insieme le loro tante anime. Ai peshmerga si è affiancato il Pkk, il partito dei lavoratori curdi in Turchia, che ha inviato i propri migliori elementi a Kobane, ottenendone una grande opera di rilancio propagandistico, politico e militare. Ovviamente, questo è un ulteriore elemento che preoccupa i turchi: un Pkk che ritorna ad essere forte, in un momento in cui Ankara cerca sì di parlare con loro, ma solo da una posizione di forza.”

Erdogan è dunque disposto a rischiare di avere Isis in casa, pur di non fare concessioni agli antichi nemici interni? “Siamo sul filo del rasoio. Tra i due pericoli, per noi Isis è il maggiore; la Turchia vorrebbe annichilire Isis e Assad, ma non concedere troppo ai curdi: un’alchimia difficile, si cerca di far quadrare il cerchio. Dal punto di vista pratico, ora anche Assad fa il gioco dell’Occidente, Isis è il nemico comune, la priorità assoluta per tutti, e la situazione a Kobane rende il pericolo di Isis più immediato, ma con ciò non è che Assad sia improvvisamente diventato buono: per la Comunità internazionale resta un paria, un sanguinario, ma la minaccia di Isis ha spinto altri governi a cambiare temporaneamente le priorità.”

Da più parti si ipotizza l’istituzione di una zona cuscinetto tra la Siria e la Turchia. “Se ne parla da quando è iniziata la crisi. In Turchia questa possibilità è vista favorevolmente da alcune forze politiche, negativamente da altre. Avrebbe il vantaggio di allontanare gli scontri dal confine turco e di consentire un maggiore monitoraggio del transito di profughi, combattenti e traffici illegali. Il rischio però, senza un contesto strategico più ampio, sarebbe quello di una soluzione-tampone.”

Intanto, tra calcoli strategici e convenienze politiche, resta il dramma della popolazione civile in fuga da Kobane e respinta al confine turco. “L’immagine internazionale che sta dando si sé la Turchia è uno dei grandi problemi. Ci si domanda come faccia a rimanere “insensibile” davanti al dramma umanitario e ciò può ulteriormente alimentare i malumori interni verso l’operato del governo, non solo da parte dei curdi, ma anche da una parte della popolazione che solidarizza con il dramma in corso. Gli scontri pro curdi aumentano (finora sono già costati la vita a 30 persone) e aumentano anche le pressioni della società civile internazionale sul governo turco”. 

Tutto ciò ha anche contribuito a rinsaldare le comunità curde, che vivono divise fra quattro stati (Siria, Iraq, Iran e Turchia) e che normalmente hanno orientamenti diversi, dialetti differenti, anche partiti e agende politiche diverse, con obiettivi che vanno dall’autonomia all’indipendentismo. “Quanto sta accadendo ha fatto nascere una consapevolezza diversa della propria importanza: già normalmente la guerra funge da collante sociale e politico, qui a maggior ragione. Il Pkk è entrato prepotentemente in scena e con la sua esperienza e le sue strutture potrebbe rinsaldare le diverse anime curde, fino al mai sopito sogno dell’autodeterminazione”.

Anche per questo, nei giorni scorsi Abdullah Ocalan è tornato a farsi sentire, invitando i curdi ad andare a combattere a Kobane e dando un ultimatum al governo: per l’intervento militare turco si può aspettare al massimo fino al 15 ottobre, ma “se cadrà Kobane, si chiuderà anche il processo di pace”. Così è tornata di nuovo di attualità anche una possibile trattativa per la liberazione dello storico leader del Pkk. Secondo Di Liddo, però “il dossier Ochalan è tra i più intricati in assoluto: da anni se ne annuncia una possibile liberazione, che poi viene puntualmente smentita. Un suo rilascio sarebbe simbolicamente una concessione talmente grande che i turchi ci penseranno mille volte: per il governo di Ankara, lui resta un terrorista. Una sua liberazione comporterebbe l’ammissione che tali accuse non sono più valide e anche la sua organizzazione non sarebbe più un’organizzazione terroristica, ma diverrebbe un interlocutore politico. Per questo resta da sempre uno dei dossier più segreti e coperti da riserbo. Visitarlo, intervistarlo è un’impresa, Ochalan è sorvegliatissimo e resta un personaggio le cui vicende muovono sensibilmente l’elettorato turco.”

Articolo Precedente

Regno Unito, in Parlamento l’Ukip di Farage conquista il primo seggio

next
Articolo Successivo

Isis, jihadisti prendono quartier generale curdo a Kobane. Onu: “Turchia intervenga”

next