Sono passate quasi tre decadi dallo scioglimento degli inglesi The Smiths e se da una parte Morrissey ha dato vita ad una prolifica discografia solista, il chitarrista Johnny Marr ha fatto uscire il suo primo lavoro solistico nel 2013 (“The Messenger”), al quale ha fatto seguito l’appena uscito “Playland”. Artisticamente parlando, cosa abbia fatto in tutti questi anni Johnny Marr è facilmente prevedibile visti i motivi dell’abbandono di quest’ultimo. “My initial reaction to the news that Morrissey and Marr can no longer bring themselves to work together was one of distress. Subsequent musing has persuaded me that both men will, if they can remain their own masters, continue to surprise and amuse” scriveva l’acuto John Peel in un articolo di inizio agosto del 1987 per l’ ”Observer”. Una delle band che ha caratterizzato un’intera decade – gli anni ottanta – creando un’alchimia di liriche e arrangiamenti nuova ed originale era arrivata ad un punto di non ritorno.

Marr prese quel volo fuori programma per gli States, dove i Talking Heads si apprestavano a registrare “Naked” e ad avere la collaborazione del chitarrista, e questa fu forse la goccia che fece traboccare il vaso, mettendo la parola fine al capitolo The Smiths. Dal momento dello scioglijmento Marr è diventato soprattutto un session man di pregio, inanellando molteplici collaborazioni: Billy Bragg, gli appena citati Talking Heads, Beck, The Cribbs e tra i tanti anche Bryan Ferry con il quale ha nuovamente collaborato scrivendo parte delle liriche del brano “Soldier od Fortune”, inserito nell’album di prossima uscita “Avonmore”. Oltre alle moltissime collaborazioni, c’è poi la sua presenza in gruppi (“The Healers”) e nel primo super-gruppo degli anni novanta, gli “Electronic”, fondati con Bernard Sumner dei New Order e che vedeva al suo interno anche i Pet Shop Boys Neil Tennant e Chris Low.

Come scritto in apertura, più di venticinque anni di incessante attività che però non ha mai contemplato il rilascio di album solistici, fino a “The Messenger” del 2013 al quale ha fatto seguito l’appena uscito “Playland”, il cui titolo prende ispirazione dal libro di Johan Huizinga “Homo Laudes”. Quest’ultimo album ha esattamente tutto ciò che un fan si aspetta dal chitarrista degli Smiths: dall’iniziale “Back in the Box” alla conclusiva “Little King” è una continua successione di riff di chitarra, spesso tiratissimi come nel caso di “25 Hours”, “Speak Out Reach Out” o della stessa titletrack. Brani indie-rock (nella sua accezione originaria, non nella declinazione attuale) dove Marr dimostra di avere un’ottima personalità anche dal punto di vista vocale. Il primo istante di “The Trap”, con l’entrata della batteria sulla seconda nota dell’arpeggio di Marr è un tuffo nelle profondità del sound degli Smiths, un intro che in quella manciata di secondi catapulta l’ascoltatore nella grigia Manchester dove tutto ebbe inizio, al tempo in cui venne plasmato un sound che avrebbe caratterizzato un’intera decade, oltre che influenzare parte di chitarristi appartenenti alla generazione successiva.

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