Da piccole aziende di provincia a grandi gruppi come Fiat e Pirelli, sono oltre 800 i gruppi italiani con attività in Brasile. Un variegato universo che guarda con attenzione ai prossimi risultati elettorali: domenica 5 ottobre si sfideranno l’uscente Dilma Rousseff (Partito dei Lavoratori) e l’icona dell’ecologismo Marina Silva (Partito Socialista), con il candidato socialdemocratico Aécio Neves nel ruolo di outsider. Le cui divergenze sono particolarmente profonde proprio sul fronte della politica economica, un fattore decisivo in uno dei momenti più delicati della storia recente del Brasile. Il Paese sudamericano è infatti entrato in recessione, avendo registrato due trimestri di crescita negativa del Pil (rispettivamente -0,2 e -0,6%). E il governo non ha potuto fare altro che dimezzare la previsione di incremento del prodotto interno lordo per l’anno in corso, portandola dall’1,8% allo 0,9%, stima ulteriormente tagliata dalla Banca centrale che nei giorni scorsi l’ha portata allo 0,7 per cento. Se anche andasse come si attende l’esecutivo, sarebbe il peggior risultato dal 2009. E si tratta della quinta revisione al ribasso in 18 mesi: un “balletto di cifre”, come è stato definito dal Financial Times, che non ha contribuito a rafforzare la credibilità del governo Rousseff. Tanto che secondo il Bollettino Focus, il rapporto settimanale diffuso dalla Banca centrale e per il quale vengono intervistati 120 tra banche, gestori patrimoniali e istituzioni finanziarie, la crescita di Rio si fermerà addirittura allo 0,3 per cento.

Uno degli enigmi più difficili da risolvere riguarda l’inflazione: nonostante un obiettivo del 4,5% la crescita dei prezzi resta stabile attorno al 6,5% (rientrando nei larghi margini che si è dato l’esecutivo, cioè 2% in più o in meno rispetto al target) pure a seguito della più dura stretta monetaria al mondo (seconda solo alla Turchia) che ha portato il tasso di riferimento Selic all’11%, con 375 punti base (cioè il 3,75%) in più rispetto a 18 mesi fa. Alla luce di questa situazione negli ultimi mesi la domanda interna si è contratta, ma questo non ha avuto alcuna ripercussione sul rapporto deficit/Pil, fermo a oltre il 3 per cento. D’altra parte ogni giorno si moltiplicano i segnali di una situazione a dir poco critica, sia contingente sia strutturale. Tra queste è di particolare rilevanza il lento ma inesorabile processo di deindustrializzazione del Paese. Solo pochi giorni fa, infatti, l’economista Marcelo Arend ha evidenziato come oggi l’industria brasiliana pesi sul Pil solo per il 13%, portando alla conclusione una parabola iniziata nell’immediato dopoguerra, quando la produzione industriale rappresentava circa il 20 per cento. Con il governo di Juscelino Kubitschek, nel 1961, si arrivò al 28%, mentre il “miracolo” del 1973 fece toccare il 33 per cento. Fino a toccare lo zenit del 36% nel 1985 sotto l’esecutivo di Josè Sarney.

In questo quadro tutt’altro che roseo – come dimostrano anche le proteste di piazza contro malaffare, corruzione e dissipazione di risorse pubbliche che hanno caratterizzato la vigilia dei Mondiali di calcio– il Paese si conferma un target di primaria importanza per le aziende italiane, che continuano a scommetterci guardando al lungo periodo. Sono due gli elementi che spingono questa tendenza. Da un lato la numerosità della popolazione: nonostante l’attuale contrazione dei consumi, il Brasile resta infatti uno dei mercati più vasti del globo, con 200 milioni di abitanti, che hanno guadagnato potere d’acquisto negli ultimi anni grazie alla costante riduzione dell’indice di Gini, la misura della distribuzione della ricchezza e del gap tra ricchi e poveri. L’eventuale vittoria di Dilma Rousseff garantirebbe la continuità del lavoro iniziato da Luiz Inácio Lula da Silva e proseguito dal presidente in carica, vale a dire una più equa distribuzione della ricchezza favorendo la crescita di una classe media nel Paese. 

Dall’altro lato c’è l’estrema chiusura del Paese, caratterizzato da regolamenti visibili e invisibili particolarmente complessi e da dazi all’importazione in molti casi elevatissimi: per tessile, abbigliamento, agricoltura, mezzi di trasporto e macchinari, che peraltro rappresentano anche il grosso dell’export italiano verso Rio raddoppiato dal 2009, superano addirittura il 30 per cento. Per questo per le imprese italiane fino ad oggi è stato decisamente più utile e conveniente avviare partnership locali o creare insediamenti produttivi in loco che spingere l’acceleratore sull’export. L’eventuale vittoria di Marina Silva potrebbe invece rendere più facile il commercio internazionale. La candidata sfidante ha poca esperienza di politica economica, ma il suo staff ha una chiara matrice business-friendly, a partire dalla coordinatrice della sua campagna Maria Alice (Neca) Setubal. La Setubal fa parte di una delle famiglie più ricche del Brasile, azionista della conglomerata Itausa che ha interessi nel settore finanziario, immobiliare, chimico, farmaceutico ed elettronico. La sua presenza appare una garanzia per la classe imprenditoriale, che, dopo di lei, ha iniziato a finanziare la candidata socialista. E, tra le varie misure che Silva potrebbe adottare nel caso venisse eletta, ci sarebbero sicuramente quelle indicate da uno dei suoi consulenti, il professor Eduardo Giannetti, che ha recentemente dichiarato di voler superare le logiche del Mercosur (il mercato comune dell’America Latina, protezionista verso l’esterno) e aprirsi invece a nuovi accordi con Ue e Usa.

Qualunque sia il risultato elettorale, le aziende della Penisola continueranno sulla loro strada di espansione nella settima economia del mondo. La Fiat infatti conferma gli investimenti decisi lo scorso anno e ha ribadito pochi giorni fa che l’attuale congiuntura (che pure ha causato un crollo nelle vendite di tutto il settore) non pregiudica il piano di espansione. In particolare in questo momento è attivo l’investimento di 6 miliardi di reais (poco meno di 2 miliardi di euro) per modernizzare la fabbrica di Betim nel Minas Gerais, costruendo una nuova linea di verniciatura otto volte maggiore di quella attuale al fine di ampliare la capacità produttiva da 800 a 950mila automobili all’anno. Mentre solo poche settimane fa Intesa Sanpaolo annunciava l’apertura di una filiale a sostegno delle imprese italiane oltre che delle aziende nazionali e internazionali presenti in Brasile. Se non si può dunque prescindere dal maggior Paese dell’America Latina, è vero anche che forse siamo nel momento giusto per allargare lo sguardo alle altre nazioni vicine. Pirelli, per esempio, ha appena annunciato l’apertura di un nuovo centro logistico in Colombia e il raddoppio dei punti vendita in Perù.

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