Sara è stufa delle solite domande: quanti anni ha scontato in carcere, perché è finita dentro, quanto manca alla fine della pena. Vuole invece parlare del lavoro che l’ha “appassionata sin dal primo istante” – confezionare abiti con le proprie mani – e che le ha permesso di immaginare un futuro oltre le sbarre. Soprattutto vuole raccontare della nuova collezione autunno-inverno presentata ieri alla Sartoria San Vittore di Milano: abiti in macramè, camicie con motivi ad intarsio, cappottini e borse realizzati al telaio il cui comune denominatore è l’attenzione per il dettaglio artigianale che li rende, in qualche modo, capi esclusivi.

“Con la macchina da cucire ho tenuto occupate la testa e le mani, cosa fondamentale per sopravvivere in carcere”, dice Sara con inconfondibile accento sudamericano (è uruguayana). “E ho scoperto una vocazione”. L’articolo 21 O.P. che regola il lavoro all’esterno del carcere consente a Sara di applicarsi con la macchina da cucire sino alle 13. Dopo quell’ora deve varcare di nuovo il portone di San Vittore, combattere la monotonia che scandisce la vita dietro le sbarre. Ma sarebbero in arrivo permessi più lunghi. E fra tre anni, una volta fuori, Sara potrà contare su un lavoro a tempo indeterminato e sui risparmi messi da parte da quando ha cominciato a rifinire orli e perfezionare cuciture. La Sartoria San Vittore è una realtà unica nel suo genere perché è anche un negozio aperto al pubblico. E le detenute-impiegate che vi lavorano sono anche socie e dipendenti di Alice, storica cooperativa milanese nata nel ’92 per garantire uno sbocco lavorativo a donne precedentemente formate nei corsi di sartoria interni al carcere di San Vittore (un secondo laboratorio è nel penitenziario di Bollate).

Sei dipendenti in tutto, di cui due part-time, divise in turni tra mattina e pomeriggio. “Donne che lavorano con orgoglio, competenza e senso della responsabilità”, assicura Albana, responsabile della sartoria e maestra di stile da ormai 10 anni. Gli stipendi variano da 600 a 1200 euro. Un piccolo capitale in tempi di crisi, specie per chi altrimenti rischierebbe, all’uscita dal carcere, di trovarsi a fare i conti con una professionalità da costruire e un avvenire da riprogettare. Dal luglio scorso la Sartoria ha una nuova sede al numero 3 di via Gaudenzio Ferrari, in una Milano che mantiene ancora un sapore popolare e resiste all’invasione di locali alla moda, nonostante la prossimità con vie ormai ultra mondane come corso Genova e Porta Ticinese. Il laboratorio sul retro, il negozio sulla strada. Alla presentazione dei nuovi abiti si alternano avvocatesse, docenti della vicina Cattolica, abitanti del quartiere.

“Il negozio ci ha dato l’opportunità di rendere visibile il prodotto, non soltanto di parlare della storia che lo accompagna”, sottolinea Luisa Della Morte, presidente della cooperativa Alice e responsabile dell’inserimento professionale delle detenute. “Abbiamo avuto la fortuna di incontrare professioniste che hanno creduto nel nostro progetto e ci hanno sostenute sin dall’inizio”. Prima fra tutte la stilista Rosita Onofri, un passato con Krizia e oggi nel team di Stephan Janson, che da anni lavora fianco a fianco con le detenute al disegno delle collezioni. Accanto agli abiti ci sono le t-shirt e gli accessori dei Gatti Galeotti, altro marchio prodotto in carcere. “Su richiesta del magistrato di sorveglianza abbiamo anche iniziato a confezionare toghe per avvocati e magistrati di tutta Italia”, aggiunge Luisa Della Morte. “Una commistione che ha dato vita ad aneddoti divertenti. Come la vignetta di Vincino in cui un giudice, indossando la toga cucita da una detenuta, esclama stizzito: Ma è piena di spilli!”.

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