Si è chiusa da qualche giorno la ventesima edizione del Mei, la convention rivolta al settore musicale indipendente e internazionale, che ogni anno si svolge a Faenza (Ravenna) e che quest’anno era dedicata a Roberto Freak Antoni, il compianto leader degli Skiantos scomparso nel febbraio scorso. Grazie anche a una serie di ospiti d’eccezione che hanno animato i due giorni – tra questi MannarinoEugenio Finardi, Tre Allegri Ragazzi Morti, Manuel Agnelli, Cristiano Godano, Rezophonic e tanti altri –  quella di quest’anno è stata decretata come l’edizione di maggior successo contando oltre 30.000 presenze. Quale migliore occasione, allora,  per fare un bilancio sullo stato della musica indipendente in Italia? È quello che si è provato a fare assieme al giornalista e scrittore Enrico Deregibus, uno che dalla musica ha avuto molto, dal ’93 anche da vivere, come ha scritto nel suo ultimo libro Chi se ne frega della musica? “Prima perché gestivo un negozio di dischi, dopo perché ne scrivevo, poi perché ne organizzavo, ora perché ci faccio di tutto”. È anche il curatore di Mei d’Autore, la seconda compilation creata in collaborazione con il Mei di Giordano Sangiorgi, dedicata a una selezione di cantautori indipendenti italiani.

Enrico, qual è lo stato della musica in Italia?
Se mi avessi posto questa domanda sei o sette anni fa avrei dato un giudizio sensibilmente peggiore. Perché trovo che nella musica in Italia, fino a qualche tempo fa ci fosse molta stagnazione. I mostri sacri, esclusa qualche eccezione, stavano perdendo terreno, erano a mio parere un po’ ripiegati su se stessi. Ma quello che mi colpiva di più era il fatto che anche i cosiddetti ‘nuovi’, i giovani, non avessero idee e fossero spesso imprigionati nei modelli precedenti. Ascoltando molti cantautori mi stupivo del fatto che almeno la metà di questi stessero su una linea stilistica che andava da Tom Waits a Paolo Conte, credendo peraltro di fare qualcosa di innovativo. Io amo all’inverosimile Waits e Conte, però quando ho sentito il ventesimo disco che pendeva verso l’uno o l’altro, o verso tutti e due, sono stato molto perplesso. Oggi invece mi sembra che esistano molte realtà interessanti. Personaggi con una certa capacità autoriale, con cose da dire e una personalità piuttosto marcata.

Qualche nome?
Brunori Sas, Le Luci della Centrale Elettrica, Giovanni Truppi… la lista è lunga. E poi ci sono personaggi usciti negli anni 90, che trovo che facciano cose straordinarie, come i Massimo Volume e Paolo Benvegnù che fanno e portano avanti qualcosa di differente con caratteristiche personali molto forti. Dal punto di vista artistico la vedo molto bene la situazione. Diversa invece è la situazione dal punto di vista economico: ormai da sette-otto anni più che scrivere mi occupo di organizzazione di festival e rassegne, e quindi certe difficoltà le vivo sulla mia pelle. Quel che è certo, è che è sempre più difficile trovare le risorse.

Quella di quest’anno è stata “l’ultima ma non l’ultima” edizione del Mei, che si sta imponendo negli anni come una delle più autorevoli manifestazioni legate alla musica indipendente. Non credi però che i premi e le targhe che in quest’ambito vengono assegnati, vengano dati con troppa facilità inflazionandone il valore?
Il discorso, in generale, mi trova d’accordo. E penso di non dire nulla di nuovo al riguardo. Il fatto del premiare è anche un modo per riuscire ad avere artisti che richiamano un certo pubblico a dei cachet morigerati. Molte manifestazioni medio piccole riescono a sopravvivere grazie a questo. Il premio è una sorta di pacca sulla spalla, di incentivo a continuare nell’attività che si sta portando con sudore, avanti.

La politica in generale sembra detestare l’arte: nonostante gli slogan ogni anno i tagli al settore sono sempre più insostenibili. Eventi come il Mei, o come il Calitri Sponz Fest organizzato da Vinicio Capossela, si rivelano essere il miglior modo per coinvolgere il pubblico e creare un indotto…
Bè, hai citato due cose abbastanza grosse. E ce ne sono anche altre di questo tipo. Ma quello che mi affascina e mi colpisce sono le piccole, se non piccolissime realtà. Mi riferisco a rassegne ma anche ai locali. In occasione della presentazione del mio ultimo libro mi è capitato di andare in posti che non conoscevo e mi sono innamorato di questi posti e della gente che cerca di farli andare avanti. Oltretutto sono anche i posti che solitamente danno spazio agli artisti cosiddetti ‘emergenti’, che davanti hanno poca possibilità di avere visibilità e che suonando, e dunque facendo gavetta, hanno la possibilità di crearsi un pubblico.

Qual è la tua opinione nei confronti dei Talent show come X Factor?
Mi pare che siano, in buona parte, una grande bolla che scoppierà prima o poi, ma non so dirti  quando. Non ho nulla contro chi vi partecipa, le strade del resto, sono così poche che capisco che uno possa fare quella scelta. E alcuni degli artisti che ci vanno sono anche meritevoli. Ma non li conosco benissimo.

Credi che in ambito musicale ci si possa aspettare qualcosa di nuovo, innovativo, che non sia solo un rifarsi al passato con risultati a volte imbarazzanti?
Un dilemma che anch’io mi pongo spesso a cui credo di non saper dare una risposta. Non so neanche se la tecnologia possa aiutare, forse sì. Stiamo parlando di musica, ma il discorso è estendibile alle altre forme d’arte. Io sono convinto di una cosa: che molto dipende dalla società che c’è attorno. In un contesto sociale di un certo tipo, la creatività può avere maggiori sbocchi e può portare a qualcosa di differente e innovativo. In questo contesto sociale non so cosa potrà venire fuori.

Parliamo della compilation “Mei d’autore” che tu hai curato. Qual è il criterio in base al quale hai scelto gli artisti da inserire?
Un criterio sicuramente c’è, ed è quello di alternare cose molto differenti tra loro. Questa raccolta va sotto l’etichetta di ‘canzone d’autore’, di cui mi occupo da anni senza, peraltro, aver capito bene cosa sia. Per me canzoni d’autore possono essere quelle degli Afterhours, dei Subsonica o di Guccini. Quindi cose molto diverse tra loro, imparentate con il jazz, col rock, con la musica etnica. Ho cercato di rappresentare tutte queste diversità stilistiche. Riguardo alle scelte dei singoli artisti sono andato molto a memoria, di istinto. Ho considerato tutti quelli che negli ultimi due anni hanno vinto qualcuno dei festival di canzoni d’autore che stimo. In corso d’opera mi sono venuti nomi che non avevo inserito, ma quello che conta è che qua c’è il tentativo di dare un’idea di quello che è oggi la canzone d’autore. La speranza è che si riesca a incuriosire chi ci capita sopra. Se di questi 35 artisti, chi ascolta si innamora di almeno 4 o 5 proposte, allora mi riterrò davvero molto soddisfatto.

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