“Io sono un mostro?”, ti chiedono guardandoti in faccia e lasciandoti muto. E tu non hai risposta. Siamo nel carcere di Bollate, struttura modello alle porte di Milano: VII reparto, l’ultimo, quello in fondo, diviso da tutti gli altri. Sì, perché qui sono detenuti i condannati per reati sessuali: violenze, molestie, pedofilia e omicidi. Trecento persone circa, su un totale di 1.300.

I sette uomini che siedono davanti a te intorno al tavolo hanno scelto di affrontare un percorso di recupero insieme con una delle psicanaliste più note e capaci, Marina Valcarenghi (collaboratrice e blogger del Fatto). E oggi con il cronista hanno deciso di raccontare la loro vita. Senza reticenze, (quasi) senza autoassoluzioni. Perfino di provare a ricostruire, spiegare ai lettori – e a se stessi – che cosa è successo nei momenti terribili. È la violenza raccontata da chi l’ha commessa (non dimenticando mai le vittime, le loro famiglie).

A cominciare dal tentativo di capire, di accettare le responsabilità. “Lo so, ho sbagliato, non cerco giustificazioni”, esordisce Giancarlo e i suoi compagni, quasi senza accorgersene, fanno tutti cenno di sì con la testa. Giancarlo è il primo a parlare. Ha quasi settant’anni e sulle spalle una condanna pesante, quasi interamente scontata. Aveva una vita più che normale: un lavoro da manager affermato, una famiglia, dei figli. Poi, apparentemente senza preavviso, quel folle salto, le manette, la sua vita sulla cronaca nera dei giornali: “Mi sono innamorato di una minorenne. Ho commesso una cosa grave. È stato giusto pagare. Il carcere ti fa riflettere per il solo fatto che ci stai dentro. Tolti gli impegni quotidiani, qui hai abbondanza soltanto di una cosa: il tempo. Allora pensi, ripensi migliaia di volte a quello che è successo per capire chi sei, perché ti sei comportato così”. Quasi nessuno si ribella al carcere. Una cosa, però, i detenuti del VII reparto la chiedono: “Dentro di noi c’è del male. Ma non riduceteci al nostro reato, non siamo soltanto quello”.

Che cosa è accaduto in quei momenti? Parla Alberto, una condanna a 29 anni più lunga della sua intera vita di ventottenne: “È come un buco nero”, poi si ferma un attimo come a voler capire se sei pronto ad ascoltare il suo racconto: “L’ho strozzata. Era una mia amica. Mi ha dato una coltellata nel braccio come per difendersi. Appena ho visto quel sangue ho perso la testa. E… le ho stretto intorno al collo il cinturino della borsetta. Posso avercela solo con me stesso. Ogni giorno rivedo quella donna; lei e sua figlia alla quale ho tolto una madre. A volte penso che quel gesto non mi riflette, ma l’ho fatto e lei non c’è più”. Non sembra fingere Alberto, né avrebbe senso. Ormai è stato condannato.

Ma alla fine prima di salutarti ritorna quella domanda: “Sono un mostro?”.

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