Il negoziato che si svolge nell’ambito della Convenzione sui Cambiamenti Climatici è lungo e complesso, ma sembra arrivato a un punto cruciale nel percorso per l’approvazione di un nuovo strumento legale che favorisca la riduzione globale delle emissioni di gas serra. I leader internazionali sono convocati nel mese di dicembre in Perù per preparare un accordo globale sul clima nel 2015 a Parigi.

Di questi tempi la vera novità è l’entrata in gioco di un movimento mondiale sulla giustizia climatica, che sfida la politica perché metta in conto il futuro del pianeta prima del presente delle banche.

Domenica 21 Settembre a New York si è svolta la più grande manifestazione popolare di sempre sui cambiamenti climatici, corroborata da riscontri in ben 2.676 manifestazioni in 146 paesi, Italia compresa.

Visto che nei giorni successivi l’attenzione della stampa e delle televisioni da noi si è rivolta ossessivamente al viaggio di Renzi da un capo all’altro degli Stati Uniti e ai suoi incontri in compiacenti e ovattati salottini, vale la pena informare di una ribellione popolare che ha messo a nudo nelle piazze la latitanza dei governanti sulla crisi del pianeta.

Movimenti e organizzazioni sociali – Via Campesina, OilWatch International, Migrants Rights International, Global Forest Coalition, the Indigenous Environmental Network, Grassroots, Global Justice Alliance, Attac, Fairwatch, l’italiana Power Shift – e più di 330 organizzazioni, in rappresentanza di oltre 200 milioni di persone in tutto il mondo, compresi piccoli produttori, popolazioni indigene, migranti, donne, attivisti per la giustizia climatica, ambientale e per l’acqua bene comune, hanno pubblicamente denunciato l’occupazione indebita da parte delle multinazionali del summit sul clima.

È ora di buttarsi alle spalle la deriva dei negoziati sul clima di Copenaghen – è stato scandito – e il cambiamento climatico galoppante va preso di petto. La società si sta muovendo ed è ora che i Capi di Stato colgano la sfida del presente e del futuro“.

Dalla mobilitazione di tante persone, organizzazioni e popoli diversi, agli annunci dei banchieri Rockefeller (ieri padroni di Exxor e oggi di Standard Oil) di non voler più investire nei combustibili fossili; dai piani ambiziosi di alcuni Paesi alle coalizioni di grandi aziende: tutto si è riversato all’interno del Palazzo di Vetro, lasciando interdetti i grandi e i piccoli della Terra, ognuno intento a illustrare mirabolanti ricette, fatte di bombardamenti, di sanzioni economiche, di attacchi al lavoro. Si è verificato, ancora una volta “fuori”, un evento di enorme portata che, ritengo, peserà nella coscienza delle nuove generazioni, anche se qui in Italia è stato quasi soffocato (forse “il cambio di clima” che seguirebbe a suo dire l’abolizione dell’art.18 è stato scambiato per un’attenzione del premier all’aumento dei gas serra!?).

Eppure gli slogan scanditi e raccolti da Mark Hertsgaard in un articolo del 22 settembre su The Nation sono di un’impressionante nettezza: “Gli accordi in corso colpiscono i diritti del lavoro e l’economia locale, distruggono la natura e sostanzialmente riducono la capacità delle Nazioni di definire le loro priorità economiche, sociali e ambientali. I finanziamenti per il clima sono un investimento per il futuro. Non devono essere ostaggi di considerazioni di bilancio a breve termine”. Si costituiscono alleanze con un capovolgimento delle divisioni su cui il mondo delle multinazionali e delle imprese energivore aveva fin qui potuto contare.

Alla marcia di New York hanno preso parte migliaia di iscritti al sindacato, rappresentanti indigeni e un articolato popolo di organizzazioni, studenti e gruppi religiosi. La testa del corteo era costituita dagli striscioni delle scuole superiori, quasi tutte composte di afro-americani e latinos e provenienti da Rockaway, una penisola nel Queens che confina con l’Oceano Atlantico e che è stata brutalizzata dall’uragano Sandy. Ha sfilato anche una rappresentanza di investitori istituzionali, che gestiscono complessivamente 50 miliardi di dollari di fatturato e che hanno annunciato che usciranno completamente dai combustibili fossili. Gli appartenenti al sindacato hanno costituito una presenza inconfondibile, con il più grande contingente unitario dentro la marcia. Gli operai elettrotecnici, si sono radunati a Broadway con uno striscione che recitava: “Pianeta sano e buoni posti di lavoro” (vedi www.peaplesclimate.org).

Si è trattata di un’uscita pubblica del sindacato accanto agli ambientalisti, come non si vedeva da 20 anni, dai tempi di Seattle. Mike Brune, direttore esecutivo del Sierra Club, ha affermato: “Sono orgoglioso di essere qui oggi, perché sappiamo che è stato il movimento operaio che ha messo i soldi per la cauzione per far uscire di prigione Martin Luther King. Siamo tornati al migliore senso civico di chi lavora e possiamo dire che i gruppi di giustizia ambientale comprendono infermieri, contadini, sindacalisti, giovani e attivisti che lavorano sui diritti degli immigrati, l’uguaglianza economica e dei diritti della natura. Il movimento è più ampio e inclusivo che mai”.

Due giorni dopo, al Consiglio Onu, Obama ha fatto le solite promesse, il premier cinese ha mandato un suo sostituto, quello indiano non si è fatto vivo. Francia, Olanda e Germania hanno stanziato fondi simbolici per i Paesi più poveri. L’Italia ha fatto spallucce e, mentre augurava a New York un mondo decarbonizzato, a Roma spargeva a piene mani permessi per trivellare ed estromettere le popolazioni dal controllo del loro territorio. Ma le marce di settembre lasceranno il segno.

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