Il fratello di Luciano Ligabue (Marco Ligabue) ha cominciato a cantare all’età di 42 anni, pubblica dischi e fa concerti in tutta Italia: 50 concerti in 120 giorni. La moglie di Luciano Ligabue (Barbara Pozzo) da quasi trent’anni fa la terapista e in questi giorni ha pubblicato il suo primo libro con Rizzoli. Storia vecchia quanto il mondo. È legittimo? Certo che sì.

Gli affari sono affari, dicono a Genova (e non solo), ed è ovvio che a un produttore musicale convenga produrre un cantautore con un nome che è garanzia di marketing, piuttosto che uno col quale partire da zero (uno per tutti, uno dei migliori). La storia della moglie terapista che scrive libri per Rizzoli è sostanzialmente speculare.

Io non ho nessuna intenzione di fare un’analisi moralistica. Anzi! Certo che di questo passo arriveremo alla linea di magliette della salute griffate “Zia Concettina Ligabue”, o ai biscotti per cani di Fido Ligabue. E allora tutti penseranno che il pittore Antonio Ligabue abbia dimostrato grande lungimiranza, quando per primo usò questo marchio come garanzia di successo mercantile, nonostante un decadente e antimoderno Marco Ongaro, in seguito, si sia prodigato a ribadire che “Ligabue era un pittore!”.

Scherzi a parte, vorrei che fosse chiaro un concetto: in Italia persiste un retaggio culturale antico che porta a considerare come male assoluto il denaro accostato all’arte. È una considerazione incomprensibile.

Non bisogna certo prendersela, poi, con Marco Ligabue, il quale mi perdonerà l’ardito accostamento: io ricordo che il cognato di Rocky Balboa, Paulie, faceva bei soldi con i giubbotti dello Stallone italiano, e ho sempre considerato Paulie un personaggio positivo d’assoluta simpatia e innocenza. In più, Marco Ligabue non ruba il posto a nessun bravo cantautore, perché tanto quello bravo col quale partire da zero avrebbe grandi difficoltà a inserirsi in certi circuiti, Ligabue o meno. Bisogna chiedersi piuttosto che senso artistico abbia andare sempre sul sicuro, ma questo è un discorso che merita trattazione a parte.

La cosa che fa riflettere, semmai, riguarda i fruitori dei libri, dei dischi, delle potenziali magliette della salute (preservo i cani); riguarda cioè la fruizione evidentemente derivante dai meccanismi tipici del fan. Forse ciò che latita è la sensibilità artistica, chissà. Di certo anche questo aspetto merita esclusiva trattazione.

Il problema, infine, è di Paulie, di chi cioè deve metterci la faccia, è una sua questione personale. Ed è un problema pratico, perché poi devi essere capace di camminare per strada senza meta e motivo su musica scontata come le lacrime dalla D’Urso, cantando “dove cazzo andiamo?!”. Paradossi.  

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