Alcuni giorni orsono si è suicidato un ragazzo che non conoscevo né personalmente né professionalmente. Me ne hanno parlato in molti, tra cui alcuni amici che lo conoscevano di vista, sconcertati perché facente parte di una famiglia benestante economicamente, inserito socialmente con un buon lavoro ottenuto dopo un’ottima carriera scolastica. Moltissimi pazienti mi hanno poi parlato dell’effetto che una notizia di questo tipo suscita in loro  sia come emozioni personali sia come timore di arrivare un giorno a perdere il controllo.

Considero questo evento come una sconfitta personale in quanto da trent’anni, oltre che lavorare in attività clinica coi pazienti, mi occupo di divulgazione scientifica in ambito psicologico psichiatrico.

Con molti colleghi abbiamo fatto innumerevoli conferenze, tenuto seminari per medici di famiglia e ospedalieri per far capire che le malattie psichiche non devono essere demonizzate e fatte oggetto di posizioni ideologiche ma curate come tutte le altre.

La stigmatizzazione sociale trent’anni orsono era molto più forte ma tutt’ora, in parte, perdura nella mente dei singoli e dei loro familiari. Di solito non manca la capacità di capire i primi segnali di una sofferenza ma piuttosto è carente la volontà di accettare che occorre farsi aiutare. Sarebbe necessario togliere dalla mente delle persone che soffrono, dai loro familiari e dai primi medici che li incontrano l’idea che essere affetti da sofferenza psichica sia qualcosa da nascondere, frutto di un carattere debole o di una incapacità di cui bisogna vergognarsi. Una paziente affetta da depressione mi raccontava che i suoi genitori e gli amici vedendola chiusa in casa le dicevano:  “Dai, datti una mossa, esci”, “cosa stai a fare sempre in casa, sei una fannullona, muoviti” e lei si sentiva come una persona senza le gambe a cui qualcuno imponesse di correre.

Ho scritto alcuni libri divulgativi su questo argomento che cercano di utilizzare un linguaggio semplice e diretto per spiegare che quando emerge una sofferenza, che perdura per alcune settimane, occorre cercare l’aiuto prima del medico di famiglia poi di psicologi e psichiatri. Troppo spesso anche noi specialisti di questo settore abbiamo utilizzato linguaggi astrusi adatti alla comprensione dei soli iniziati all’argomento. Troppo spesso anche sui mezzi di comunicazione appare l’annosa disputa tra fautori e demonizzatori delle medicine come se non fosse chiaro che si devono usare se sono necessarie, come in qualsiasi altro ambito medico. Troppo spesso fra psicologi e psichiatri, invece che una proficua collaborazione, si determina rivalità professionale con denigrazione reciproca dell’altrui operato. Troppo spesso tanti psicoanalisti e psicoterapeuti sembrano chiusi in una torre fatta di parole incomprensibili per gettare sul paziente la scelta della terapia cui sottoporsi: dovrebbe essere compito del medico o dello psicologo prescrivere la terapia migliore e non frutto della scelta del paziente che si reca da quello che da medicine o da quello che fa una psicoterapia psicoanalitica piuttosto che una cognitivo comportamentale.

La morte di un ragazzo mi fa arrabbiare perché so per esperienza clinica che quasi sempre bastano poche cure per risolvere situazioni che sembravano a lui o ai suoi cari drammatiche. Le statistiche per i disturbi più frequenti quelli ansiosi e  quelli depressivi parlano di guarigione dal 70 all’80% e miglioramento parziale nei restanti casi.

E’ chiaro che non possiamo fare finta di essere su un mondo immaginario: i servizi pubblici sono carenti, gli specialisti privati non sempre sono all’altezza, il costo delle cure può risultare troppo oneroso. Bisogna però avere fiducia sull’efficacia degli interventi e sul fatto che, almeno per gli aspetti più urgenti, poche sedute possono risultare risolutive.

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