Sabina Guzzanti è una sorella, un’amica, forse un giorno faremo un tour insieme in giro per l’Italia”. Parola di Michael Moore. Se ancora attendiamo l’annunciato “tour” dei più satirici tra i documentaristi occidentali, indubitabili quanto memorabili restano i complimenti “fraterni” del cineasta americano esplicitati nell’agosto 2007 quando Moore stava promuovendo alla Mostra veneziana il suo Sicko, ardita denuncia del malato sistema sanitario statunitense. Ora che della Guzzanti sta per uscire la nuova fatica – La Trattativa, 2 ottobre, sui documentati (mal)affari tra Stato e Mafia – osannata anch’essa al Lido di Venezia, suona illuminante riportare alla memoria le sincere lusinghe che Moore in tale occasione riservò per la poliforme artista romana. Assediato dai giornalisti tricolore a caccia di titoli, era frequente sentirlo rispondere alle solite domande all’italiana – “Lo farebbe un documentario su Berlusconi”? – con quanto segue: “Avete una meravigliosa e talentuosa documentarista che può farne quanti volete di film su Berlusconi, perché lo chiedete a me?”.

Insomma, un innamoramento pienamente bilaterale su base artistica e di militanza, scoppiato da parte del regista di Fahrenheit 9/11 all’indomani della sua visione di Viva Zapatero! (2005): per l’occasione mandò a Sabina il suo sostegno per la chiusura censoria del programma tv RaiOt (novembre 2003) ad opera del Governo Berlusconi e la Guzzanti – da parte sua – gli regalò un’intervista esclusiva dopo nove anni al suo programma in onda su La7 Un, due, tre, stella!

Due voci, lingue e continenti per una sola causa: la passione incondizionata per la denuncia e l’indignazione a 360° delle ingiustizie civili, politiche, sociali vigenti nei rispettivi Paesi. Il tutto mirabilmente condito da maiuscola Satira, che permette contemporaneamente di “ridere e reagire”. Perché qualcosa può cambiare, e magari anche migliorare. Se dunque il cinema d’impegno civile è l’ispirazione ab origine a cui tanto la Guzzanti quanto Moore guardano con riverenza, la forma documentario-satirico di militanza con momenti di “mockumentary” (documentare qualcosa di finto come se fosse reale) trova genesi in diverse provenienze artistiche, che si radicano non poco nella miglior tradizione narrativa/teatrale e successivamente cinematografica occidentale che colpiva con irriverenza il Potere assoluto, i sistemi corrotti e corrosivi, le censure di ogni tipologia.

Impossibile procedere per sintesi lungo le multiformi origini di cui sopra (dal Medio Evo in poi..), più interessante può essere concentrarsi sull’emblematica figura e l’opera di un cineasta per così dire loro “predecessore”, un formidabile italo-americano purtroppo poco noto, che portò il nome di Emile de Antonio (1919-1989). Egli documentò il meglio ma soprattutto il peggio dell’America, attraverso graffianti documentari di montaggio tra i primi anni ’60 e la fine degli ’80. Con sguardo brechtiano sulla realtà (anche la Guzzanti rivela questo approccio negli interpreti de La Trattativa) e il coltello affilato sul collage d’autore orientato a mettere-in-mostra la follia umana al potere, denunciò le nefandezze del senatore repubblicano cacciatore di “streghe comuniste” Joseph McCarthy (Point of Order, 1963), il sistema elettorale americano (That’s Where the Action is, 1965), gli orribili errori commessi dalla commissione Warren durante le indagini sull’omicidio di John F. Kennedy (Rush to Judgement, 1966), la guerra in Vietnam (In the Year of the Pig, 1968), l’ipertrofia imperialista di Richard Nixon, prefigurandone lo scandalo Watergate (Millhouse: A White Comedy, 1971), le tragiche colpe di J.Edgar Hoover – leggendario ed inossidabile capo dell’FBI – dal quale egli fu perseguitato e schedato per l’intera sua vita: si tratta del suo ultimo film, chiuso pochi mesi prima di morire nel 1989, dal titolo Mr. Hoover and I.

L’attualità dell’opera di de Antonio è disarmante e per certi versi richiama appunto alcuni approcci di Sabina Guzzanti e Michael Moore, laddove entrambi lasciano che il montaggio creativo o la messa-a-nudo del villain oggetto di denuncia provochi l’indignazione (e la tragica risata) dello spettatore. Di Emile de Antonio scrisse Michel Foucault nel 1978: “L’insieme dei film di Emile de Antonio è una sorta di rivelatrice macrofisica del potere, un efficace e ancora attivo laboratorio politico che ci scuote e ci fa alzare la nostra comoda poltrona di (tele)spettatori-cittadini perennemente addormentati, riportandoci nella realtà e chiedendoci con forza una risposta pratica, un’azione concreta”. (in American College. Il cinema di Emile de Antonio a cura di Federico Rossin, Agenzia X, 2009).

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