C. è sempre stata una donna indipendente. Dopo il diploma ha trovato il lavoro dei “suoi sogni”, ha continuato a studiare e si è laureata fuori corso a pieni voti. I turni, le trasferte, la precarietà venivano accettati come parte integrante della professione che si era scelta. O dentro o fuori. Quel lavoro non era solo il mezzo per vivere, ma una parte di sé nella quale si rispecchiava come individuo.

Fino al momento in cui ha avuto un figlio.

Mi parla alla vigilia di una scelta importante. Dopo un periodo di fermo, le hanno rinnovato il contratto per qualche mese, ma questa volta hanno chiesto la sua disponibilità a una trasferta di tre settimane all’estero. Qualche anno fa non ci avrebbe pensato un attimo, avrebbe fatto le valigie di corsa.

“Come faccio a lasciare mio figlio per tre settimane? Non ha nemmeno due anni, ha ancora bisogno di me”. Mi racconta combattuta al telefono. Non so come fare”.

Come si può consigliare una donna, libera e autonoma da sempre, se scegliere la famiglia o il lavoro?

La sua preoccupazione non era solo se sottostare o meno ad un ricatto insito nella scelta forzata a cui l’azienda la metteva di fronte (“potremmo non prolungarti il contratto“), ma giustificare a se stessa il vero motivo per il quale dentro di sé aveva già preso la sua decisione.

Razionalmente ci sarebbero state mille ragioni per non accettare quella proposta, ma una soltanto contava e con la quale non aveva mai dovuto fare i conti prima: suo figlio. Non se la sentiva di lasciare il bambino per un tempo così lungo, ma pur di ammetterlo avanzava ragioni di tutt’altro tipo: economiche, pratiche, lavorative.

C’era un senso di colpa al rovescio, non per l’abbandono dei figli, ma per la rinuncia a un’opportunità di lavoro, rea ammissione di debolezza, profanazione dell’icona emancipata interpretata per anni.

In quegli ambienti di lavoro poco baby-oriented è più dura riconoscere – e vedersi riconosciuta – la propensione alla famiglia. Chi antepone il privato, anche solo temporaneamente, resta indietro.

La responsabile di C. ha meno esperienza di lei, ma è senza figli, un vantaggio per l’azienda che può contare sulla sua disponibilità, sempre. E’ l’effetto boomerang di voler stare nell’ingranaggio che produce, senza condividerne più le regole. E quando le viscere si ribellano, lo smottamento delle convinzioni acquisite da tempo, ci trova perduti, malfermi nella nuova identità.

Oggi più che mai, casa e lavoro, viaggiano su due carreggiate distinte e separate.

In senso contrario anche gli uomini non sono privi di conflitti interiori. Da un uomo ci si aspetta che metta la carriera al primo posto. Non c’è margine per sensi di colpa e tentennamenti, rendere pubblico il disagio potrebbe compromettere il proprio profilo pubblico e instillare possibili ritorsioni al lavoro. Eppure conosco tanti papà, che avrebbero fortemente desiderato restare a casa coi propri figli, nei loro primi mesi di vita.

Il problema vero in Italia è che, indipendentemente dal sesso, chiunque preferisca la famiglia vede deprezzato il proprio valore come lavoratore. La commistione tra i due ruoli è ancora lontana.

Ho chiesto ad un mio studente, ingegnere svedese di successo, cosa ha fatto quando sono nati i suoi tre figli.

“Ho chiesto il permesso parentale e ho fatto il papà a tempo pieno per sei mesi”.

“Non ti hanno demansionato una volta tornato al lavoro? Nessuna battutina dei colleghi alla macchinetta del caffè?” Ricordavo alcuni racconti di conoscenti italiani che dopo un periodo a casa col bebè, erano stati ridicolizzati dai colleghi al lavoro.

Ci ha messo un attimo per capire il senso della mia domanda, chiarissima per un italiano, molto meno per uno scandinavo. “Anche i miei colleghi sono stati a casa. Per noi è sfigato chi torna al lavoro”.

Già. Ma queste sono altre latitudini.  

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