A quali regole economiche formali deve sottostare il decisore politico, di qualsiasi ordine e grado, nell’uso dei soldi dei contribuenti? Si è detto “formali”, perche quelle sostanziali (non rubare, fare l’interesse pubblico ecc.), sono simultaneamente ovvie e sistematicamente ignorate. Eventuali sprechi di risorse dovrebbero in teoria sottostare periodicamente alla verifica elettorale, ma sulle faccende economiche questa verifica appare assolutamente general-generica (l’economia va meglio o peggio l’occupazione, ecc.). L’ignoranza economica degli italiani è poi abissale, come emerge da molte ricerche, e forse è meglio così, soffrono meno. Interessarsi dell’uso dei soldi pubblici è invece essenziale in un paese dove il 45% della ricchezza prodotta transita nelle mani dello Stato, alla faccia di chi parla di liberismo eccessivo. L’inesistenza di vincoli all’uso di quelle risorse è un problema che dovrebbe interessare soprattutto i lavoratori prima che le imprese, visto che loro con le tasse ne pagano di più, anche se non lo notano molto, avendo un prelievo automatico dalla busta paga…

La costituzione italiana di fatto presenta tre soli punti riconducibili ad un qualche “dovere” dei decisori politici riguardo al prelievo fiscale e successivamente nell’uso delle risorse economiche: l’articolo 3 dichiara “i cittadini essere uguali di fronte alla legge”, che può, non senza qualche fatica, essere interpretato come il divieto alla tassazione arbitraria di singolo o di un gruppo sociale rispetto ad un altro. L’articolo 152 definisce invece come “ispirato a criteri di progressività” il prelievo fiscale, ma senza specificare i confini di tale progressività, né l’ammontare totale, per cui in teoria il governo potrebbe prelevare l’80% dei nostri redditi, ed in forma tale da renderli tutti assolutamente identici tra loro. Il terzo principio è riconducibile al “danno erariale”, (sancibile dalla Corte dei Conti, art.100 e 103 della costituzione), cioè all’obbligo, per il decisore pubblico, di non sprecare risorse, ed a risarcirle all’erario nei casi in cui ciò sia comprovato in giudizio. La casistica relativa è stata di recente ampliata ai generici danni alla collettività nazionale, ma mai fino ad ora si è vista alcuna applicazione sanzionatoria per l’uso inefficiente di risorse pubbliche, anche nei casi ciò fosse stato largamente comprovabile. Sembra cioè sufficiente che il decisore politico dichiari, senza comprovarlo, una qualche utilità pubblica di un’opera, e non sarà chiamato a risponderne in alcun modo, neppure di fronte all’evidenza.

Come contrappasso abbiamo una diffusa evasione fiscale (180 miliardi all’anno), con un importate “scambio tacito” tra evasori e politici poco attenti all’uso corretto delle risorse.

Vediamo ora sommariamente perché lo spreco sia così diffuso e popolare, e prendiamo ad esempio un’opera, grande o piccola, inutile, e finanziata dalle casse pubbliche (ma il discorso vale in modo identico per servizi sovradimensionati o inefficienti e per le forniture).

Innanzitutto sono contenti i costruttori dell’opera ed i loro dipendenti e i famigliari dei dipendenti ed i subfornitori, una lunga catena. Ma anche gli utenti sono contenti: anche se l’opera serve poco rispetto ai quanto costa, se gli utenti non la devono pagare ne hanno rilevanti benefici netti, e spesso si organizzano per ottenerla. Poi ci sono i politici locali: se non tocca a loro aumentare le tasse per realizzarla, saranno contentissimi, e la chiederanno a gran voce dichiarandola “indispensabile, socialmente essenziale, utile all’ambiente e all’occupazione”, e quanto altro. Il decisore politico centrale che ottiene l’allocazione avrà l’imperitura gratitudine da tutti costoro, gratitudine che si esprimerà con voti, sostegno elettorale esplicito, e a volte “utilità” molto più tangibili.

E chi deve pagare l’opera inutile, cioè il contribuente, sarà invece scontento? Certo che no, infatti, come abbiamo detto, non lo saprà, anzi, la vedrà realizzata tra il giubilo generale, a cui sarà indotto ad unirsi (“la politica del fare”, “cose concrete finalmente, non chiacchiere”, ecc.). Ovviamente l’accumulo di spese inefficienti ha contribuito e contribuisce alla voragine attuale dei conti pubblici.

Non sarebbe ora di riflettere su questa totale, e voluta, “discrezionalità del principe” nella spesa dei soldi dei contribuenti? Non occorrerebbe stabilire l’obbligo di valutazioni socioeconomiche terze (non si chiede all’oste se il vino è buono), comparative (devono essere confrontate e valutate soluzioni alternative ad ogni spesa sopra una certa soglia di costo), e trasparenti (ogni passaggio e assunzione della valutazione deve essere comprensibile)?

Alcuni obblighi di valutazione formalmente già esistono, ma, anche nei rari casi in cui sono osservati, i risultati sono in genere poco accessibili al pubblico, e mancano sempre sia della comparatività che della terzietà, due condizioni assolutamente imprescindibili per disporre di risultati accettabili. Poi la decisione politica può divergere dai risultati delle analisi, ma a quel punto il decisore dovrebbe motivare con precisione i motivi di questa divergenza: gli toccherebbe una sorta di “onere della prova”, molto ragionevole visto che vuole spendere soldi altrui. Gli sprechi sarebbero certo ancora possibili, ma molto più difficili.

Infine, molti sprechi sono radicate in imprese pubbliche per le quali è sempre difficile giustificare la loro natura pubblica, e spesso la loro stessa esistenza (si pensi alle società partecipate dagli enti locali). Anche il perimetro di ciò che deve essere necessariamente pubblico potrebbe essere oggetto di revisione, come strumento per ridurre gli sprechi.

E sprecare soldi pubblici sembra davvero un peccato mortale; lo è sempre, ma oggi in particolare. 

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