La scorsa settimana sfogliando la stampa nazionale ed internazionale, sono stato colpito da due buone notizie, tra loro non correlate: l’esito del referendum sull’indipendenza della Scozia e un sondaggio condotto in Israele sulla definizione dell’identità ebraica. Ciò che le due notizie hanno in comune, naturalmente, è che entrambe in modo diverso sono pertinenti all’identificazione dei cittadini nel proprio gruppo di appartenenza. L’uomo vive in gruppi e l’appartenenza al gruppo di riferimento è soprattutto psicologica: noi vogliamo essere membri del nostro gruppo. Purtroppo, non sempre ci accontentiamo dell’appagamento del nostro desiderio di appartenenza: cerchiamo ragioni ulteriori.

Le ragioni ulteriori di appartenenza a gruppi sociali sono seducenti: possiamo ad esempio condividere (realmente o meno) una discendenza comune e costituire una etnia con i nostri vicini; oppure possiamo pensare (a ragione o a torto) di condividere con loro una cultura, un luogo, una religione. Il romanticismo riunì questi concetti in una idea alquanto astratta di popolo, il volk, entità che aveva tanto in comune da potersi considerare una unità collettiva con anima e sentimento propri; e l’ideologia volkish fu una delle basi del nazismo.

La moderna genetica delle popolazioni smaschera le semplicistiche ipotesi romantiche e pur riconoscendo gruppi umani differenziabili per composizione genetica, si oppone a qualunque interpretazione di tipo razziale, ad esempio perché suggerisce che tutti gli esseri umani viventi originano da un piccolo gruppo di uomini anatomicamente moderni vissuti in Africa circa 200.000 anni fa, con minimi incroci con gruppi precedenti (ad es. con uomini di Neanderthal). Le diverse etnie moderne si sono differenziate da questo gruppo acquisendo le loro diverse caratteristiche somatiche nel tempo e sotto la spinta della selezione ambientale. Questo dissolve una premessa essenziale delle teorie razziste del novecento, l’immutabilità delle razze e l’orrore per il meticciato: la purezza primigenia della razza ariana non è mai esistita, anzi il gruppo umano primordiale era unico e conteneva in germe tutte le etnie che se ne sono successivamente differenziate. 

I nazionalismi moderni sono frutto di “identità immaginate”, un concetto dovuto al sociologo Benedict Anderson: un gruppo può credere di costituire un popolo, un volk, una razza o quant’altro, ma di fatto dietro questa credenza c’è molto di immaginato e poco di scientificamente vero. E per fortuna: perché non è eticamente ammissibile derivare norme e leggi dalla genetica. Sarebbe forse ora di abbandonare i nazionalismi e di stringere i legami tra i gruppi umani, rinunciando del tutto all’idea dei “popoli”.

In questo senso il risultato del referendum scozzese mi è sembrato molto incoraggiante: le ragioni pratiche dell’unione hanno prevalso sul particolarismo e sull’ideologia di chi si immagina membro di un gruppo etnicamente distinto. E’ sperabile che altri popoli in Europa, non escluso il nostro facciano tesoro della lezione scozzese: le baggianate di Bossi e compagni sulla razza nordica, discendente da Alboino, francamente non avremmo mai voluto sentirle e speriamo di non sentirle più. 

Il sondaggio israeliano riportato dal Jerusalem Post è un caso diverso: alle persone era stato chiesto se ritenessero ancora che l’identità ebraica fosse definita dall’essere figli di una madre ebrea o dall’essersi legittimamente convertiti alla religione ebraica, i due casi previsti dalla legge vigente in Israele e dalla tradizione rabbinica. Sebbene oltre metà degli intervistati si sia dichiarata d’accordo con la legge vigente, oltre un quarto ha invece risposto che essere ebrei deriva dal proprio convincimento interiore e dalla volontà di esserlo. Riconoscere che la propria identificazione di gruppo è psicologica anziché biologica o religiosa mi sembra un grande momento di autoconsapevolezza, che non può che essere positivo nei confronti degli sviluppi delle relazioni israelo-palestinesi.

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