Alla fine del tunnel, l’abate Diego Farias da Sorocaba, Brasile, non trova luce né tesori. Usurpa il trono di Ibarbo pascolando nella cella esterna prevista dal 4-3-3 zemaniano, ma nell’ora d’aria concessa dai difensori dell’Atalanta in trasferta sarda, passeggia, si addormenta e invece di evadere dal copione, fallisce il più facile dei gol. Nel retro della piccola bottega degli orrori, sullo scaffale dei bidoni d’importazione, Farias è in buona compagnia. Dalle promesse estive alla realtà del campo, in soli 180 minuti, in molti si sono persi e in tanti confermati. A Marcelo Larrondo del Torino (foto), attaccante che fa della lentezza la sua essenza e della desuetudine al gol la sua bandiera (11 in tutto in 6 stagioni italiane) non fa difetto la coerenza. Miracolato da un contratto triennale con opzione sul quarto anno strappato a Urbano Cairo, l’ex di Siena e Fiorentina ha voluto ringraziare per la fiducia a modo suo.

Esordio choc davanti al proprio pubblico con molle rigore intercettato da Handanovic e prosecuzione in linea con le aspettative in quel di Genova. Sessantuno minuti di nulla che al cronista di Tuttosport al seguito della squadra che torna in Europa dopo vent’anni fanno spendere due sole parole accompagnate da un 4 in pagella: “Inguardabile. Punto”. Di Farias e Larrondo (già ribattezzato ‘Lorrendo’ dai suoi tifosi) la generosa legione straniera arruolata nell’ex campionato più bello del mondo è piena. Imbarazzanti cavalli di ritorno (Taider al Sassuolo). Portieri a disagio con i piedi (lo strapagato Diego Lopez del Milan, ottimo all’esordio e tragicomico al Tardini di Parma su retropassaggio del compagno De Sciglio). Deludenti mestieranti algerini visti ancora in Emilia (Ishak Belfodil e Abdelkader Ghezzal, l’anno scorso al Latina dopo aver girovagato tra Bari e Cesena) e solo per rimanere alla squadra di Tommaso Ghirardi che di calciatori ne gestisce più di mille e dagli ex della formazione pontina, ecco spuntare nella formazione guidata da Donadoni il macedone Stefan Ristovski. La Gazzetta dello Sport gli assegna un 4,5 che a ben guardare è di manica larga. ‘Risto’ apparecchia infatti la tavola milanista con zelo meritevole della maglia onoraria numero 12 a strisce rosse e nere. Prima viene irriso da Bonaventura, poi lascia correre Honda nelle praterie e infine serve Menez per il gol del 5-3.

Un tempo in Serie A sbarcavano Zico, Maradona e Platini, oggi i loro omologhi rimangono nel limbo delle eterne promesse (Niang), delle rivincite improbabili (Fernando Torres), delle scommesse azzardate che a Napoli già sfociano nello psicodramma collettivo e nella contestazione individuale. Sotto accusa, con cori e striscioni ad personam, il presidente De Laurentiis, colpevole secondo il loggione del San Paolo di essersi affidato ad acquisti a costo zero o quasi. Al “Presidente è bene che lo sai/ o spendi o te ne vai” si è sostituito il minaccioso e articolato: “Vogliamo lo scudetto o sarà un anno maledetto”. E che arrivi lo scudetto con il camminatore Jorginho, l’immobile Albiol e il compagno di reparto Koulibaly, è azzardo da scommettitori affetti da patologico ottimismo. All’oggettiva povertà economica, madre del depauperamento tecnico, si è aggiunta l’esagerazione. Ciclicamente (e non solo con le scivolate dialettiche di Tavecchio) i dirigenti predicano la necessaria riscoperta del vivaio italiano, ma come sempre razzolano altrove.

Nell’Udinese opposta alla Juventus, fin dal primo minuto, danzavano nove stranieri. Un greco in porta (Karnezis, preferito per misteriosi ragioni al talento Scuffet ben prima che il giovane numero uno friulano si infortunasse) e poi ancora, belgi, croati, brasiliani, colombiani, francesi. Un mappamondo di nazionalità che a Torino ha prodotto una sconfitta prevedibile e in altri luoghi, l’involontaria comicità legata ai destini del cognome. A Palermo, ad esempio, presidiando le strisce bianche dell’area di rigore, giocano sia Pipo che Bamba, figli dell’esterofilia di Maurizio Zamparini che in rosa (tanto per facilitare la già difficile salvezza dei siciliani) ha immesso ben 12 stranieri. E’ vero che il passaporto non è necessariamente sinonimo di fallimento (come spiegare altrimenti il tracollo dell’italianissimo Sassuolo a Milano, con i celebrati Zaza e Berardi fuori dalla gara e il secondo, dopo una gomitata, anche espulso?) ma insieme alla voglia di rivincita mal gestita, può contribuire. Lo dimostra Facundo Roncaglia, ex rude centrale della squadra di Montella precipitato a Genova, sponda Preziosi-Gasperini, durante la sessione estiva di mercato.

Domenica, in Toscana, Roncaglia ritrovava gli ex compagni indossando un’altra maglia. La sua partita è durata 72 minuti. Una brutta entrata da dietro su Cuadrado, la seconda conseguente ammonizione e l’invito del signor Orsato alla doccia anticipata per placare il desiderio di revanche. Per fortuna del Genoa a presidiare la porta c’era Mattia Perin, un ragazzo dell’agro pontino nato a Latina nel 1992. Scrive Antonio Pennacchi: “Latina è quella cosa che si chiama prepotenza/ecco qui tutta la lenza che cià voglia di menà”. Perin ha usato le mani soltanto per parare. Sul ring, all’angolo, sono rimasti Roncaglia e i suoi fratelli. Pedatori di contrabbando, pugili suonati, stranieri senza più seconde occasioni né talento da vendere.

da Il Fatto Quotidiano del 16 settembre 2014

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