Una guerra di donne contro donne quella della tratta di nigeriane in Italia. E che, ora come ora, ha un solo vincitore, il business: secondo i dati dell’International Organization il traffico di esseri umani frutta 150 miliardi di dollari l’anno. Le vittime, quelle che passano al nostro fianco in treno o per strada, sono fantasmi senza nome, diritti, documenti. Persone che arrivano in Italia illuse dal sogno di un impiego e che finiscono segregate e autorecluse per paura di subire o far subire ai loro familiari altre violenze. Le uniche persone con cui parlano sono i clienti che le stuprano a pagamento e le loro sfruttatrici. Che dicono loro di non fidarsi dei bianchi.

“Attenzione, non parliamo di donne sprovvedute. Ci sono anche persone molto colte, che magari hanno frequentato il liceo, l’università. Parliamo di ingegneri e avvocati in Nigeria che però qui in Italia sono vittime della tratta e non sanno come uscirne”, spiega Elisabeth Aguebor, mediatrice nata a Benin City e cresciuta a Lagos, la prima nigeriana a dirigere uno sportello di consulenza per donne nigeriane e dell’Africa Sud Sahariana, Women In One. Il 35% delle donne vittime dello sfruttamento proviene dalla Nigeria. Lo stesso Paese delle ragazze rapite di BringBackOurGirls, slogan (e hashtag) scandito anche da Michelle Obama a Angelina Jolie. Giovani finora mai ritrovate e che, probabilmente, sono già state vendute ai trafficanti per finanziare i fondamentalisti Boko Haram. La stessa Nigeria che nel 2014 è diventata la prima economia africana, entrando di fatto nel gruppo dei nuovi paesi in ascesa, i Mint – in nuovi Brics, per intenderci, che includono Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia – ma i cui abitanti vivono in gran parte nell’indigenza.

“Dobbiamo tornare in Nigeria per capire perché queste ragazze sono schiave, tornare al rito voodoo cui sono sottoposte prima di partire”, spiega Elisabeth con il tono di chi ha conosciuto la vera disperazione, soprattutto nei primi anni del Duemila, quando faceva parte dei “nuclei di strada” tra Novara e Milano e come volontaria aiutava le ragazze sulle statali in cui si vendevano. “Per chi non è africano è difficile capire il grado di manipolazione mentale che il voodoo ha sulla sua vittima, che è convinta che, se si ribellerà agli ordini, impazzirà, avrà sfortuna, condizionandola all’immobilità. Ecco perché la maggior parte di chi ha subito un rito è molto religioso, si circonda di santini e canta inni pentecostali. Cerca in Dio una protezione dal male”.

Women in One, finanziato dalla Fondazione Padri Somaschi, parla la stessa lingua di chi deve aiutare, tentando di contrastare l’isolamento culturale e sociale delle donne nigeriane, facendo da ponte tra loro e altre realtà del territorio, fornendo consulenza legale e sanitaria, offrendo una prospettiva a chi magari ha un passato di tratta e ora non sa che fare, aiutandolo a costruirsi un curriculum lavorativo e affettivo. Se il 90% delle donne che si rivolge allo sportello di Piazza XXV Aprile, a Milano, è vittima di tratta o lo è stata, il 100% ignora i diritti di cui gode, che siano essi relativi a permessi di soggiorno, casa o maternità. Anche se, magari, sono già da tanti anni in Italia.

“Quello che mi spaventa più di tutto è che chi si rivolge a noi non ha la minima idea di godere del diritto alla salute. Cioè di potersi rivolgere liberamente a un pronto soccorso, a un medico. E questo perché uno dei mantra delle madam – le loro carceriere – è che qualora dovessero finire in ospedale, verrebbero immediatamente spedite nei Cie. Quindi molte rinunciano a curarsi, peggiorando le loro condizioni di salute”.

La guerra alla tratta, infatti, è una guerra di donne contro donne. Le peggiori nemiche di Elisabeth sono proprio le madam, donne spesso sposate, con un doppio lavoro: badanti o cameriere di giorno, sfruttatrici e strozzine di notte. Donne che considerano altre donne “animali da mungere”, da prendere a cinghiate perché obbediscano. Che le costringono a prostituirsi venti ore al giorno, a trasferirsi per seguire i flussi di clienti, levando loro dignità e qualunque sogno di potersi costruire una vita autonoma. “Sono pericolose – dice Elisabeth scura in viso. – Se le madame sapessero di questo sportello, chiuderemmo domani mattina”.

Articolo Precedente

Iran, ragazza da 2 mesi in prigione. Voleva vedere l’Italia del volley

next
Articolo Successivo

#BeFreefromViolence, la nuova campagna contro la violenza sulle donne

next