Ludico o tragico? Questo è il problema

Perché mai un gioco da tavolo, con 64 pedine a due facce che sembrano invitanti cioccolatini per metà fondenti e per l’altra bianchi, si dovrebbe chiamare Othello? Dov’è Venezia, e dov’è Desdemona? Dove sono Iago e Cassio, e che c’entra il grande bardo? Tutti interrogativi inutili, anche se le sorti del dramma di Shakespeare si sono intrecciate in qualche modo, fin dall’inizio, con quelle del gioco inventato dal giapponese Goro Hasegawa. 

«Qualche anno fa, […] tutte le volte che si cercava di organizzare uno striminzito torneo di Othello, inevitabilmente qualcuno tra la gente di passaggio finiva per chiedere qual […] era il cantante che avrebbe interpretato il ruolo del “Moro di Venezia”. Ora, invece, ci viene riferito che ogni volta che viene allestita l’omonima opera lirica verdiana, immancabilmente la cassiera del teatro di turno viene assalita da un’orda di accaniti giocatori che vogliono sapere qual è la tassa d’iscrizione e quali premi in palio ci sono». 

Così scriveva Ennio Peres, già nei lontani anni Ottanta, nella paginetta (p. 5) che apriva un’agile guida, curata dalla Federazione Nazionale Gioco Othello, a un passatempo che avrebbe fatto sempre più proseliti. Il volumetto s’intitolava Othello. Il libro per imparare… la fantasia per giocare (Roma, Malvarosa, 1987), ed era il frutto del lavoro di tre diversi autori, allora tra i migliori giocatori di Othello sulla piazza italiana: Augusto Brusca, Alessandro Maccheroni, Luigi Puzzo. La Federazione Nazionale Gioco Othello (FNGO) era nata nel giugno di due anni prima della sua pubblicazione. Al tempo i dominatori assoluti, a livello mondiale, erano i giapponesi (lo sono ancora oggi), ai quali tentavano comunque di tener testa in qualche modo gli americani e, negli ultimi anni, gli europei.

I campionati mondiali avevano preso avvio nel 1977, e si erano poi svolti ogni anno. Nel 1985 il miglior risultato italiano: il secondo posto ottenuto, in Grecia, da Paolo Ghirardato. Si sarebbe dovuto aspettare il 2008 per il raggiungimento del gradino più alto del podio: a guadagnarlo il milanese Michele Borassi, dopo una combattuta finale disputata contro il nipponico Tamaki Miyaoka.

In campo come due judoka 

L’Othello è una versione più moderna dell’ottocentesco Reversi (cfr. ingl. to reverse ‘invertire’). Brevettato da Hasegawa nel 1971, è molto facile da apprendere, ma richiede anni e anni di esercizio e di elaborazione di schemi per la messa a punto di sofisticate tattiche e strategie. Le pedine bicromatiche (una faccia è bianca, l’altra nera) sono quasi tutte rovesciabili: le uniche non ribaltabili sono quelle posizionate ai quattro angoli dell’othelliera.

Per giocare bisogna essere in due, e si comincia con le quattro caselle centrali già occupate da due pedine nere e due bianche, in posizioni alterne. È l’unica differenza rispetto al Reversi, nel quale le prime caselle a essere occupate sono sempre le quattro centrali, ma non necessariamente nel modo in cui avviene nell’Othello: lì i giocatori, liberamente, le posizionano dove credono.

La prima mossa spetta al nero. Condizione indispensabile perché si possa fare una mossa è che si possa rovesciare almeno una pedina avversaria, intrappolandola fra due proprie; se questa condizione non sussiste, si è costretti a passare. Vince chi può vantare alla fine la presenza, sul terreno d’incontro, di pedine del colore scelto in numero superiore a quelle avversarie.

Le sorti di una partita possono essere incerte fino al termine dell’incontro. I rapidi, possibili capovolgimenti di fronte hanno suggerito a molti il paragone fra una gara di Othello e un combattimento di judo. Fra giapponesi, d’altronde, ci s’intende. 

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