«Napoli e il corteo che nega lo Stato» è il titolo surreale di un corsivo del Corriere della Sera, se il riferimento è alla morte tragica di uno sventurato diciassettenne per mano di un carabiniere. Dalla sociologia “à la carte” applicata a Napoli noi foresti scegliamo sempre quello che ci fa più comodo, per cui in questo caso l’autore del pezzo ci racconta che “le persone oneste che ieri pomeriggio hanno intonato cori inneggianti alla camorra «che ti protegge», contro lo Stato «che ti uccide» sono vittime e complici della loro rovina. Chi abbraccia queste pulsioni eversive – sottolinea Marco Imarisio – perpetua la propria condanna».

Qualche giorno fa, nelle quattro chiacchiere di un breve trasferimento cittadino, un tassista mi ha in un certo senso illuminato. Persona di una certa età, con figli piuttosto grandi e con problemi di lavoro, mostrava tutta la sua incredulità per una situazione nuova, che nella sua lunga vita mai aveva veduto: «Le sembra possibile – ha detto – che rispetto alla polveriera della disoccupazione, ai milioni e milioni di giovani che non hanno un lavoro, ogni giorno non ci siano migliaia di ragazzi che si sdraiano per terra e bloccano le città per rivendicare i loro diritti? Roma, per esempio: dovrebbe essere paralizzata e invece nulla. E così è nel resto d’Italia. Ma dove sono finite tutte le lotte che abbiamo fatto ai nostri tempi?».

Quando gli ho chiesto come si potesse mai definire questo nuovo fenomeno sociale, l’inazione giovanile (e non solo), mi ha gelato con un’immagine folgorante: “Questa, caro signore, è una democrazia senza protesta”. Nei giorni successivi ho pensato molto a quella frase, anche rispetto ai nostri anni, e ho pensato che la morte della democrazia sia proprio “una democrazia senza protesta”. Non ho fatto analisi su questo, ho preso nota, ho constatato una realtà, e ho provato un’amarezza terribile.

Per tornare a Napoli, adesso. Se devo ricordare a memoria le ultime volte che ho visto una città risollevarsi da un torpore, da quella “democrazia senza protesta”, questa città è proprio Napoli. Non Bologna, né Milano, né Torino, figuriamoci Roma, Nord-Est poi non pervenuto. Le uniche occasioni in cui una città ha “alzato i toni” della protesta civile, con dolore, dolore estremo, per i propri diritti negati, sono accadute a Napoli. La morte di Ciro Esposito, il tifoso ucciso prima della finale di Coppa Italia a Roma, è il primo episodio. I suoi funerali hanno quasi segnato la separazione di Napoli da una certa Italia indolente adagiata sulla televisione, la città si è resa conto d’essere sola a combattere una sua personalissima battaglia tra civiltà e riappropriazione di un’identità orgogliosa.

Il secondo momento, la manifestazione per il povero Davide ucciso da un carabiniere durante un inseguimento. Come immaginate potesse reagire una città a cui lo Stato sottrae un proprio figlio, neppure maggiorenne? Negli anni lontani, i miei peraltro, quando accadevano “incidenti” di questo tipo le motivazioni politiche centrifugavano in modo repentino le responsabilità delle forze dell’ordine, qualunque esse fossero, la tensione saliva a livelli oggi irraggiungibili. E il Corriere, che quella memoria storia dovrebbe averla, parla del “corteo che nega lo Stato»? Anche in questo caso, Napoli ha preso consapevolezza dei propri diritti, ho protestato giustamente, ancora meno di quello che si poteva pensare.

Una democrazia senza protesta ci toglie particelle di umanità, ci sottrae inesorabilmente consapevolezza nei nostri diritti. Torniamo a protestare.

 

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