Venerdì alle cinque del pomeriggio alla Mostra del cinema di Venezia c’è stata la proiezione ufficiale in Sala Grande del film Anime nere. Il film più complicato, più travagliato, più sofferto della mia carriera di produttore sempre fuori dal coro, per scelta e soprattutto per carattere, con un centinaio di film sul groppone, tanti belli e importanti, ma anche alcuni brutti ed inutili. Non sta a me, soprattutto qui, dire dove si collochi questo film, che è sicuramente bello,  se tra gli importanti o gli inutili. Certo è che in Sala Grande il film ha ottenuto un successo incredibile. Ma in trentatré anni di frequentazioni veneziane, saranno almeno venticinque anni che non mi ricordi di un film andato male in Sala Grande. Ho visto fischiare film e linciare autori, ma nei primi anni Ottanta. Poi solo tanti applausi, da sparare il giorno dopo sui giornali se durati sette, dieci o quindici minuti.

Nel nostro caso il dato diffuso è stato tredici minuti. Io posso solo dire che l’applauso è durato veramente tanto. E più la gente applaudiva, più io ripercorrevo le difficoltà e i sentimenti traditi. E anche gli atti sleali. Perché un film è fatto anche di questi, commessi e subiti. Più la gente applaudiva, più io sudavo, non so se per il caldo, l’emozione o forse anche un pizzico di felicità. Più la gente applaudiva agli attori e al regista, più io cercavo con lo sguardo gli altri che il film lo hanno fatto insieme al regista e agli attori, parlo di costumisti, fonici, macchinisti e così via. Più la gente applaudiva, più io ho sentito l’esigenza forte di prendere uno ad uno e spingerli a farsi vedere gli attori secondari, quelli che non stavano in prima fila a prendersi gli applausi, quelli che a spese loro sono venuti dalla Calabria a Venezia a vivere questi momenti per loro di sicura felicità. Non so come andrà questo film, ma per me gli occhi pieni di lacrime di gioia e di emozione dei nostri attori comprimari rimarrà uno dei successi più belli della mia carriera.

Sabato pomeriggio sono tornato a Roma, per andare a vedere la prima partita di campionato della Roma e soprattutto per stringere a me le persone che amo. Una parentesi romana di poche ore, per poi tornare al Lido. Prima di ripartire mio figlio Davide, quello piccolo, il solito, quello della maglietta e delle parolacce, mi ha stretto forte e mi ha chiesto: “Ma che ci torni a fare a Venezia?”. Non gli ho risposto.

A Venezia continuerò nei prossimi giorni a inseguire immagini e sogni, il più possibile in solitudine, senza spendere troppe parole con gli altri, dazio da pagare alla mia timidezza e al mio carattere, forse orrendo, che sono la mia debolezza ma anche la mia forza. E poi in fondo anche in una sala gremita di millequattrocento persone, la visione di un film rimane un atto solitario. Cosa ogni film ci regali è difficile da esprimere a parole con chi ti ascolta distrattamente perché freme dalla voglia di raccontarti il proprio punto di vista. Cercherò di continuare ad emozionarmi, di capire cose nuove, di ritrovare cose già viste. Perché voglio continuare a fare film, speriamo più belli che brutti, perché i film sono un pezzo importante della mia vita e per concepirne di nuovi ho bisogno di confrontarmi con quelli già fatti. Come si possa definire tutto questo, se lavoro o cos’altro, non lo so. Ma soprattutto non lo so spiegare a un bambino di sette anni. E’ per questo che chiedo pubblicamente scusa a mio figlio Davide per non avergli risposto.

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