È come se fosse caduto il mappamondo e si fosse frantumato in tanti pezzi che non si mettono insieme. Hanno tentato di metterlo insieme parlando di scontro di civiltà, una teoria del politologo americano Samuel Huntington, che ha percorso ciò che restava dei pezzi del mondo dopo la guerra fredda, con la stessa fortuna di un’altra tesi quasi contemporanea, quella della “fine della Storia”, riproposta dal filosofo americano Francis Fukuyama. I due errori si spiegano con una congestione di eventi accaduti tutti insieme, di cui la cultura del mondo ha capito ben poco, salvo notare un solo dato importante: la discontinuità. D’ora in poi (dalla fine della guerra fredda in avanti) sarebbero accadute cose che prima non si erano né pensate né viste.

 La grande svolta è il 1945, quando tutti capiscono che, fra il bombardamento di Dresda e le bombe di Hiroshima e Nagasaki, la forza tecnologica delle armi avrebbe reso sempre più impossibile usarle. Il pacifismo non c’entra. Né le lunghe stanchezze che seguono alle grandi guerre. Contava – e conta – la constatazione che, nel nuovo tipo di guerra, il più forte perde sempre, perché si deve fermare prima della distruzione finale. Infatti il Paese più forte, gli Stati Uniti, ha perduto tutte le guerre intraprese dopo il 1945, fino ai due esemplari conflitti dell’Iraq e dell’Afghanistan, dove non solo il più forte ha perso e si ritirato (o si sta ritirando) ma continua a pagare le conseguenze di un disordine inarrestabile. Ho appena ricordato che in mezzo, tra un fenomeno (la secondo guerra mondiale) e l’altro (le “piccole” guerre perdute dal potente gigante) c’è stata la guerra fredda. Ha creato un grande vantaggio tenere ferme le armi più pericolose a causa della uguaglianza di forza tra le due parti, e un grande equivoco: la persuasione che la “cortina di ferro” dividesse davvero due mondi diversi, ovvero due civiltà. Abbiamo chiamato la nostra “occidentale”, descrivendo così cultura e costumi e ponendo pensiero e tradizione giudaico-cristiana a fondamento del “nostro” mondo.

Quando la Storia ha sorpreso il mondo (tutti, da una parte e dall’altra) con il crollo del muro, si è incrinata la sicurezza di due culture chiaramente marchiate solo dalla politica. E mentre si era alle prese con l’incertezza e lo sbando che ha seguito la fine del Muro, ci si è accorti di due fenomeni a cui però non si è data valenza politica: la globalizzazione e la rete. Una avrebbe cambiato l’agibilità degli spazi fisici, dando luogo a immensi fenomeni di spostamento di ricchezze, imprese, cultura, tecnica, talento, lavoro e di masse di esseri umani. L’altro avrebbe spostato la gran parte della conoscenza, della comunicazione e di una quantità grandissima di operazioni intellettuali, organizzative, economiche, dal “fuori” della vita al “dentro” della rete, dove abitano pensieri sciolti e grandi bilanci, organigrammi che si sarebbero voluti segreti per lungo tempo e social network creati apposta per rendere pubblico anche il pensiero minimo di un istante.

Sulle sabbie mobili di una realtà così mutevole e incerta si sono insediati due pensieri che sembrano troncare le incertezze: il confronto, e quindi la guerra di civiltà. E la fine della Storia. Il primo pensiero ci tranquillizza perché ci induce a credere (in modo ambiguo, non detto, ma inevitabile) che vi sia una civiltà superiore, la nostra, e che, se necessario, dovremo unirci per difenderla. Il secondo, la fine della Storia, ha influenzato molto più di quanto non si pensi, giudizio politico e rappresentazione giornalistica degli eventi. Tutto viene visto come episodio, come una storia che si apre e si chiude. I governi abbandonano rapidamente grandi impegni e grandi crociate, per abbracciarne altre, con una frammentarietà paurosa (e anche un’oscillazione altrettanto paurosa, si pensi alla guerra, sanguinosa o tollerante, alla droga). I media sono diventati una galleria di quadri e performance del tutto sconnessi, segnati solo dal quanto sono impressionanti, a cui i destinatari devono partecipare come a uno spettacolo che, per le leggi dello spettacolo, cambia sempre e non ha interesse a rievocare lo spettacolo precedente.

Ed eccoci alle decapitazioni di Isis. Sono paurose ma anche spettacolari, e anche episodi che non si prestano né a essere protagonisti della scena del mondo né a mobilitare armate di antagonisti di una simile barbarie. A parte le destre ed estreme destre, che la prendono in modo concitato e goliardico quando non governano, il resto del mondo (che in gran parte chiameremo centrista, perché in cerca continua di equilibrio) non saprebbe come dividersi, anche perché, per ogni mossa, c’è una controindicazione commerciale, un’insopportabile tensione economica, una quasi immediata diversificazione di interessi che spezza ogni aggregazione di alleati. Storia e tradizione non servono. Forse Fukuyama ha avuto torto, forse ragione, ma nessuno trova risposte e motivazioni nel passato, non nel proprio e non negli altri. La civiltà, dovunque spezzata dalla immensa mobilità della globalizzazione e dalla invasione invisibile e totale della rete, è un concetto, ma anche un fatto totalmente svuotato dai “valori” di un presunto passato. Quei valori o sono di un’unica, nuova civiltà di tutti, che va dal salvare i naufraghi in mare al trovare nuove medicine, o non esiste. A meno di riconoscere Isis sperando di batterlo. Ma allora ci si deve mettere sullo stesso piano, sperando di mozzare una testa in più. Non ho una conclusione, ma so che la “civiltà” che molti, in buona fede e in mala fede invocano, deve ancora venire in questo mondo nuovo, sconnesso irrimediabilmente dal passato. Potrebbe essere grande, non una crociata ma una comunità, se le parole di Martin Luther King, di Bob Kennedy, di Obama di Papa Francesco hanno un senso. E non è una speranza da poco.

Dal Fatto Quotidiano del 31 agosto 2014

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