La notizia improvvisa che Andrea Guerra lascerà la guida di Luxottica, una delle poche aziende gioiello italiane, ha destato sorpresa e allarme nel mercato finanziario: sprofonda Luxottica in Piazza Affari dopo le indiscrezioni di stampa. In realtà questo modo di procedere conferma la normale prassi del sistema capitalistico italiano.

Cinquantenne, chiamato al vertice della società 10 anni fa dalla Indesit di Vittorio Merloni, il manager ha occupato con baldanza e tratti innovativi la scena economica: ha  costruito un caso che contemperava la tradizione delle valli bellunesi con la velocità del mercato globale. L’uso informale del maglione lo avvicina a Sergio Marchionne ma la somiglianza finisce lì. Li differenzia ad esempio la politica innovativa, e in fondo poco costosa, di welfare dei dipendenti: buoni della spesa, libri per i figli  e assistenza sanitaria integrativa. Luxottica ha rappresentato l’alternativa alla miope e diffusa visione del futuro per l’azienda famigliare, oscillante tra il nepotismo di figli e nipoti, spesso non capaci, e la vendita ai fondi di investimento. Il modello realizzato sembrava ideale: all’azionista l’indirizzo, al management la gestione, con la necessaria sintonia sulle cose importanti. Una macchina da soldi per il management e per Leonardo Del Vecchio, annoverato come il più ricco uomo d’ItaliaOltre 18  miliardi di capitalizzazione, 8600 punti vendita, 75000 dipendenti sparsi per il mondo, 7 miliardi di ricavi,  una crescita nel primo semestre 2014 oltre il 5%, fanno di Luxottica una delle nostre poche multinazionali eccellenti.

Adesso si rompe il sodalizio e finisce la favola, sembra per dissenso proprio sulle strategie, innescato da visioni diverse sulla rischiosa e costosa partnership con Google per gli occhiali a realtà aumentata, voluta da Guerra. I motivi della possibile separazione non sono chiari. Leonardo Del Vecchio possiede oltre il 61% delle azioni, mentre il mercato ne possiede il 21%. Perciò è il padrone della società. Tutto normale quindi: l’imprenditore, classe 1935, è un altro di quei cavalli di razza del nostro capitalismo abituato all’allineamento dei manager e forse non ha apprezzato il ruolo diventato ingombrante del suo dipendente. Finirà con un addio soft, il che vuol dire che il manager riceverà una generosa buonuscita accanto alle recenti stock-option già detenute.

Ma questi sono risvolti che competono alle parti in causa. Il problema per la collettività è un altro. Le aziende italiane si mantengono  padronali anche quando si quotano, abituate ai salotti buoni e ai passi felpati.  Restano  disturbate  dalla trasparenza  e tanto meno sui motivi degli incarichi manageriali. Il padrone, pubblico o privato non fa differenza, non ha nessuna intenzione di farsi limitare nelle scelte. Dimenticando che quando è andato in Borsa a prelevare risparmio pubblico ha  deciso di cedere una parte dei suoi  diritti di proprietà ai soci di minoranza.

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