Puntualmente, come in quasi ogni Agosto, si torna a parlare di possibili sacrifici da richiedere ai pensionati; stavolta lo ha fatto il ministro Poletti, indicando come a suo avviso siano praticabili tagli alle pensioni più alte vuoi sotto forma di prelievi quantitativi vuoi tramite ricalcoli contributivi, mediante i quali finanziare interventi in materia di esodati. Come quasi sempre accade quando parla un politico, anche se non di professione, le dichiarazioni non sono precise negli intendimenti, lasciando aperta la porta a soluzioni le più diverse e, soprattutto, ispirate ai più diversi principi politici ed economici.

Infatti, le modalità da utilizzarsi potrebbero ispirarsi a criteri molto diversi tra loro; la prima discriminante sarebbe quella che riguarda il modo di vedere le pensioni e, di conseguenza, i pensionati: serbatoio di risorse ritenute una concessione “del monarca” al quale attingere a discrezione e bisogno dello stesso, oppure parte di un sistema previdenziale che preveda accantonamenti durante la vita lavorativa e rendite nella quiescenza; nel primo caso le pensioni sarebbero affidate al buon cuore del “regnante” di turno, nel secondo i pensionati si aspetterebbero di vedere razionalmente e rigorosamente rispettati i criteri previdenziali. Non è una differenza da poco, poiché sposta le scelte da una totale arbitrarietà non bisognosa neppure di spiegazioni razionali, all’esito di processi di ragionamento e di calcolo sul quale basare interventi che restino con rigore allineati entro i criteri di previdenza; poiché nel primo caso si “fa e basta” mentre nel secondo occorrono tempo e capacità per fare i necessari calcoli e presentarli in modo credibile, il sospetto che la politica scelga la prima via è forte.

Ammesso e non concesso che questo governo intendesse scostarsi dalla prassi dei precedenti (totalmente quantitativa) e considerasse le pensioni come la restituzione di un accantonamento, sarebbe poi da vedere se tale restituzione sarebbe considerata come una forma di retribuzione (ancorché differita) e quindi equiparabile fiscalmente agli altri redditi oppure come un’entità fiscalmente aggredibile in modo selettivo. Anche qui, la differenza è radicale: nel primo caso, in linea con i prelievi e le de-indicizzazioni attuate dai governi precedenti, si potrebbero effettuare prelievi di fatto fiscali alle pensioni, esonerando da tali prelievi i redditi di altra natura (da lavoro dipendente o autonomo) anche se nelle stesse fasce reddituali; nel secondo caso, invece, i contributi richiesti ai pensionati dovrebbero essere richiesti nella stessa misura anche agli altri redditi; per inciso, questo era il senso delle sentenze della Corte costituzionale che hanno in passato bocciato i prelievi selettivi e criticato le de-indicizzazioni delle pensioni. Le parole di Poletti sembrano indicare la prima direzione; quando indica come destinazione dei possibili prelievi la salvaguardia di esodati nell’ambito del sistema previdenziale, il sospetto che stia studiando il modo di aggirare la sentenza della Corte che vietava di fatto i prelievi destinati alla fiscalità generale e applicati alle sole pensioni è fortissimo.

Diamo però al ministro il beneficio del dubbio e ipotizziamo che oltre all’astenersi da interventi monarchici voglia anche mantenersi fiscalmente ineccepibile ed evitare mosse furbette per aggirare la Costituzione; anche in questo caso si troverebbe di fronte a un bivio: trattare i prelievi sulle pensioni come puri prelievi fiscale e quindi applicarli a tutti i redditi oppure strutturare i prelievi sulle pensioni in modo tale da non far loro assumere una veste fiscale. Il primo caso è una via contabilmente semplice: si calcola il fabbisogno e lo si spalma sulle fasce di reddito che si vogliono interessare al provvedimento, la seconda strada, viceversa, è molto più complessa perché richiede di identificare, in un ambito strettamente previdenziale, quali risorse possano essere prelevate senza configurare una nuova tassa e l’unica via è il ricalcolo contributivo che dica, pensione per pensione, quanta parte sia un “benefit” concesso (sempre un po’ monarchicamente) dallo Stato e quanta invece abbia la natura di una retribuzione guadagnata lavorando e differita per la vecchiaia. Stando alle esperienze pregresse, al lavoro che dovrebbe fare l’Inps e alla probabile distribuzione dei privilegi previdenziali che emergerebbe dal ricalcolo, il sospetto che non lo si farà approssima la certezza; d’altra parte, però, anche la resistenza del governo a dichiarare apertamente di stare effettuando ulteriori prelievi fiscali a tutti i redditi mentre è subissato da ogni direzione, domestica, europea e mondiale, di richieste e suggerimenti di ridurre le tasse, è fortissima e rende poco credibile anche l’ipotesi numero uno.

Pertanto è assai probabile che le misure che ha in mente Poletti sarebbero fiscalmente selettive mirando alle sole pensioni; inoltre, una volta fatti saltare gli argini dell’equità fiscale e delle regole previdenziali, le pensioni verrebbero a essere trattate (come fatto sinora, al lordo di eventuali altre bocciature della Corte Costituzionale) da “spesa comprimibile” in funzione delle esigenze dello Stato e quindi in maniera sostanzialmente monarchica; siamo tornati alla prima casella.

Che il Ministro abbia in mente un esproprio a carattere fiscale e di natura arbitraria sembra confermato dalle sue affermazioni sul gettito; alla obiezione che sarebbe basso, data l’esiguità dei percettori di pensioni “alte” , il Ministro ha seraficamente risposto che l’entità delle risorse “dipende da dove si fissa l’asticella”. In soldoni, le pensioni nel mirino potrebbero essere anche moltissime, datosi che il termine “alte” è assolutamente relativo e può essere facilmente piegato alle esigenze del Reale erario.

Se poi si guarda all’utilizzo che Poletti vorrebbe fare delle risorse derivanti dal prelievo, i dubbi aumentano; il ministro, infatti vedrebbe di buon occhio la loro destinazione a interventi per lavoratori che “altrimenti rischierebbero di finire esodati”; l’ambiguità sta qui nell’utilizzo del termine “esodati”, che ha indicato negli ultimi tre anni coloro che erano stati sorpresi dalla riforma Fornero in stato di disoccupazione forzata e per i quali la data di pensione era stata spostata in avanti talvolta di molti anni. Poletti sembra invece fare riferimento a lavoratori oggi attivi che potrebbero trovarsi disoccupati in futuro, in assenza dei requisiti per la pensione; infatti parla di istituire uno “scivolo” per il quale vanno stimate le risorse necessarie e tali risorse, aggiungo io, potrebbero avere ammontare estremamente variabile in funzione del ciclo economico e della capacità o incapacità del Governo di fare riforme e creare opportunità di lavoro. Chiarito che il problema della disoccupazione è cruciale e che l’istituzione di un sussidio (a termine) è necessaria, trattandosi di problematica sociale, la sua soluzione dovrebbe però essere a carico della fiscalità generale e in questo ambito i pensionati dovrebbero essere chiamati a fare la loro parte.

Nel complesso, le dichiarazioni agostane di Poletti vanno ennesimamente a rafforzare il dubbio che per questo governo, come per i precedenti, persista l’ottusa volontà di guardare alle pensioni come a una elargizione discrezionale e, come tale, soggetta a ogni possibile arbitrio, anziché muovere finalmente verso un’ottica integralmente previdenziale che preveda innanzitutto una seria valutazione contributiva a valle della quale togliere i privilegi a chi ne ha e poi chiamare i pensionati a dare il loro contributo in un momento di crisi insieme agli altri cittadini e nella stessa misura.

Non guasterebbe se Renzi battesse un colpo per chiarire se condivide le idee ambiguamente espresse di Poletti oppure no.

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