Immaginate un mondo in cui la forma di comunicazione privilegiata tra persone non sia più il testo o il gesto, bensì la foto. Beh, in realtà c’è poco da immaginare: vuole semplicemente dire che siete nel 2014 e avete occhio per quello che vi accade intorno. Sapete bene che nella postmodernità, in cui l’unità di misura è il pixel e non la parola, l’homo videns ragiona, si informa e comunica prevalentemente per immagini. E in quest’era visuale un elemento in particolare spicca senza dubbio tra tutti, per pervasività nella società e grado di massificazione: il selfie.

Non ci credete? Evidentemente non avete seguito la presentazione di Mary Meeker, venture capitalist che nel maggio del 2014 ha tenuto una conferenza intitolata “State Of The Web“. Vi basti sapere che, secondo la Meeker, allo stato attuale vengono pubblicate sulle principali piattaforme di social networking e instant messagging 1,8 miliardi di immagini. Al giorno. Una buona percentuale di queste immagini sono selfie. Penso che possiamo concludere con tutta sicurezza, dunque, che i contenuti visuali abbiano davvero preso il sopravvento nella comunicazione umana, considerando che per produrre questa mole di immagini, fino a qualche tempo fa, c’era bisogno di mesi. Non di singoli giorni.

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Ora, la storia della pubblicità ci insegna che laddove c’è una massa critica di contenuti di qualsiasi tipo, l’occhio dei marketer si posa sornione in attesa di capire come monetizzarla. Tanto materiale vuol dire tanti dati merceologicamente rilevanti, divisibili in pacchetti e rivendibili agli investitori (che è poi l’essenza stessa del successo di Facebook, come sapete bene). Fino a poco tempo fa si riteneva che le immagini non sarebbero mai potute rientrare in questa dinamica, semplicemente perché un’immagine non parla da sola e non esiste alcun software che possa individuare dei pattern, ovvero degli schemi ricorrenti che classifichino automaticamente le foto e ne traggano qualche informazione utile. E qui casca l’asino, perché il mondo è andato avanti, le tecnologie sono avanzate e tutto questo è stato possibile.

Avete presente le tecniche di facial recognition? Certo che ce l’avete presente, solo che magari non sapevate si chiamassero così. Ma le avete esperite quotidianamente, su Facebook, quando nel taggare una foto la stessa creatura di Mark Zuckerberg vi ha suggerito di taggare certi amici piuttosto che altri, perché li aveva riconosciuti per voi. Questi software di riconoscimento facciale sono utilizzati anche (e soprattutto) dall’FBI, se questo vi può far dormire sonni meno tranquilli. Ma non è dei rischi della privacy che vogliamo parlare, bensì del fatto che anche a livello civile – e non solo militare e investigativo – queste tecnologie hanno abilitato processi di individuazione di pattern nelle immagini. Persino tra gli addetti ai lavori questo ha voluto dire “rivoluzione”:

Il facial tracking ha un significato profondo. Per molti anni c’è stata una barriera assoluta e invalicabile fra quello che era possibile rappresentare o riconoscere con un computer e quello che non lo era. Si poteva rappresentare una quantità precisa, con un numero, ma non una qualità olistica approssimativa, come l’espressione di un viso.

[Jaron Lanier, Tu non sei un gadget, p. 207]

Non stiamo parlando della banale funziona “Trova” di Word, che in pochi secondi individua la parola da voi cercata, essendo essa composta da lettere facilmente identificabili. Qui stiamo parlando di un livello di analisi impensabile 10 anni fa. Stiamo parlando del fatto che se in una foto compare Tizio, Facebook lo individua per voi perché riconosce i suoi tratti somatici e riesce nitidamente a distinguerli da quelli di Caio e Sempronio. Anche se la foto è buia e Tizio è in un angolo della foto, neanche al centro.

Ma questo lo sapevamo. Il punto è che la tecnologia è andata ancora più avanti di così. E qui arriviamo al nocciolo della nostra equazione “vostri selfie = milioni di dollari altrui“.

Pinterest ha comprato VisualGraph. Facebook ha investito 40 milioni di dollari per Vicarious. E Google, che non si fa mai mancare nulla, ne ha spesi 500 per DeepMind (così, giusto perché a Mountain View piace sempre assaporare quel bel retrogusto di monopolio digitale). VisualGraph, Vicarious e DeepMind sono software di intelligenza artificiale basati anche sull’image recognition.

A cosa servono in termini pubblicitari? A questo:

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[Credits to Mashable.com: Image Ditto Labs]

Chi possiede materiale fotografico in quantità sproporzionate – dunque Pinterest, Facebook, Google ma anche WhatsApp e compagnia messaggistica varia – sta affinando le proprie tecnologie per “far parlare” le vostre foto. E tutti quei selfie che avete fatto con spensieratezza, chissà dove e chissà quando, nella fugacità del momento e nell’ingenuità dell’eterno presente, condivisi poi sui vostri profili e gettati nell’oblio digitale della vostra identità in rete, beh, avranno un valore enorme. Perché diranno tutto di voi e di chi vi sta attorno.

La geolocalizzazione dirà dove eravate. Il tag dirà con chi eravate. E il selfie stesso dirà come eravate vestiti, cosa stavate mangiando, che oggetti vi accompagnavano.

Niente allarmismi sia chiaro, nulla di così inquietante. Niente sermoni sulla manipolazione di massa, sull’invasione della privacy, sul controllo orwelliano della realtà. Non stiamo parlando di questo. Stiamo semplicemente compiendo un’analisi sul digitale, sulla sua evoluzione e sugli scenari che si prospettano per il futuro. Ovvero che tutto dirà qualcosa di voi e dei vostri conoscenti, perché dall’altro lato dello schermo c’è qualcuno più esperto di voi che riuscirà a “far parlare” le vostre felpe e i vostri cibi – individuando brand e alimenti, tendenze e gusti. Fino ad ottenere il risultato finale, sogno perverso di tutti i marketer della storia: la profilazione perfetta del singolo consumatore e il completamento del grafo sociale, che permette agli advertiser di captare le relazioni che intercorrono tra i vari nodi della rete sociale. Non solo Tizio compra X, ma Caio, essendo amico di Tizio, potrebbe essere interessato a X. Semplicemente, arriveranno a sapere tutto.

Il mio modesto suggerimento? Non dite tutto. Non ogni istante della vostra esistenza merita l’attenzione di una foto, non ogni contenuto da voi prodotto merita una pubblicazione su Facebook. Se ci pensate bene, la storia della pubblicità non è che l’eterna battaglia tra qualcuno che vuole sedurre (i brand) e qualcuno che deve resistere (i consumatori). Bene, e allora non dategliela vinta così facile. Tenetevi qualcosa per voi. Vi renderà speciali.

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