Il turismo vale il 10 per cento del Pil nazionale e impiega oltre due milioni di persone. Eppure la sua gestione risulta spesso improvvisata se consideriamo che dal turismo dipende un lavoratore italiano su 10. Dai dati recentemente diffusi dall’Osservatorio nazionale del turismo, l’incasso del comparto – nel 2013 – è di 33 miliardi di euro, un miliardo in più rispetto al 2012. Ma a spartirsi la fetta più grossa della torta sono soltanto quattro regioni – Lazio, Lombardia, Veneto e Toscana – che incassano il 60 per cento. Il sud, invece, ha una capacità di attrazione molto bassa: il 13 per cento. L’Italia, secondo la classifica mondiale per arrivi internazionali, è scivolata al quinto posto, dopo Francia, Stati Uniti, Spagna e Cina. E mentre il ministro Dario Franceschini vara il decreto sul turismo – convertito in legge il 28 luglio – per risalire la china bisogna fare i conti con i piani decennali dei competitor più agguerriti: francesi e spagnoli. 

Italia 2020
Il nostro piano strategico “Italia 2020”, elaborato da Piero Gnudi, ministro del governo Monti, individua in 60 azioni, raggruppate in 7 linee guida, lo sviluppo del settore. Tra gli obiettivi c’è il potenziamento del controllo dello Stato sul turismo. Obiettivo al momento irraggiungibile, visto che le regioni, con la riforma del titolo V della Costituzione, sul turismo hanno competenza esclusiva. Per realizzarlo, insomma, occorrerebbe prima modificare la Costituzione. Non è l’unica falla del sistema. Perché manca una strategia di marketing, che invece è presente nel piano di Francia e Spagna.

Il sistema francese e quello spagnolo
La Francia, per dire, investe sul turismo 27 milioni di euro (dati 2012) mentre l’Italia ne spende, nello stesso anno, circa 35. Eppure le mete francesi surclassano quelle italiane. Il segreto è la strategia: la Francia punta sulla delocalizzazione dei flussi turistici d’affari, sviluppando la promozione non solo di Parigi ma di altre città francesi, organizzando tra l’altro congressi e meeting. E per conquistare i mercati emergenti – come Cina, Brasile, India e RussiaAtout France (l’agenzia governativa di sviluppo turistico) potenzia i traffici diretti verso gli aeroporti. Il piano strategico francese divide i prodotti turistici in cinque categorie: città, regioni litorali, campagna, montagna e destinazioni vitivinicole.

La Spagna, invece, nel suo Plan Horizonte 2020, si concentra su tre macro assi: la conoscenza, l’innovazione e l’attrazione di nuovi talenti. “Quello che manca in Italia – dice Flavia Coccia, curatrice dell’analisi sui piani strategici – è l’elaborazione di progetti annuali e quinquennali con dei costi delle attività determinati e delle vere strategie di promozione e di marketing basati su analisi e studi statistici”. E le responsabilità del governo sono denunciate nella premessa del piano italiano dov’è scritto: “Il turismo non è mai stato considerato come un investimento su cui puntare per lo sviluppo del Paese”.

I nomi chiave del turismo
Il turismo italiano è nelle mani di un esperto dell’atomo e di un uomo di teatro: Cristiano Radaelli, commissario straordinario dell’Enit, e Ninni Cutaia, direttore generale del ministero per il turismo. Entrambi i nomi, tra gli addetti del settore hanno destato più di una perplessità. Radaelli – nominato a giugno da Renzi – è un ingegnere nucleare, vicepresidente di Confindustria digitale e presidente (confermato fino al 2016) di Anitec, l’associazione nazionale delle industrie d’informatica, telecomunicazioni ed elettronica di consumo. E’ anche uno degli esperti del Tdlab, cioè il neo laboratorio digitale del turismo del Mibact, nato per colmare, in sei mesi, il ritardo digitale del settore.

Ma è il nome di Cutaia a scatenare le polemiche. Ex direttore del teatro Mercadante di Napoli e poi del Teatro di Roma, già funzionario del ministero per lo spettacolo attività teatrali, Cutaia ora siede sulla poltrona di dirigente generale del ministero per il turismo. In molti non dimenticano la sua nomina a direttore del Teatro di Roma e la sua incompatibilità con la funzione di dirigente che ricopre al ministero: aveva esercitato funzioni ispettive e di controllo anche sul “suo” teatro. E ora che è il nuovo direttore generale del turismo del Mibact, c’è chi parla sarcasticamente di “teatro del turismo”.

Enit vince, Enit perde
Le linee guida del piano “Italia 2020” prevedono il rilancio dell’Enit. In attesa che cambi nome, e diventi Agit, proviamo a dare qualche cifra. L’ente nazionale del turismo vanta di aver chiuso il proprio bilancio con un attivo di circa 2 milioni di euro. La relazione del collegio dei revisori però rileva: “Anche nell’anno 2013 l’Agenzia ha conseguito una rilevante perdita economica di 3,9 milioni di euro subendo una svalutazione patrimoniale di circa 4 milioni di euro, che passa così da 14,6 milioni del 2012 a 10,6 milioni del 2013”. In sostanza: nel solo 2013 oltre un quarto del suo patrimonio originario è andato perduto.

Vediamo ora come sono spesi i soldi dell’Enit: nel bilancio 2013 si evidenzia che, dei 26 milioni di uscite, ben 13 milioni riguardano gli stipendi del personale e solo 7,7 milioni sono stati investiti per la promozione turistica. Le spese per il personale, delle 23 sedi Enit all’estero, sono aumentati da 7,5 a 8,1 milioni di euro. Di tale aumento, il 7,94 per cento è per la spesa dei dirigenti nelle sedi oltre confine: tre sono stati trasferiti da Roma a Tokyo, Francoforte e Parigi. Inoltre per il 2014 è previsto un aumento degli investimenti per le fiere e le borse internazionali. In particolare al Mitt di Mosca ci saranno 4 regioni in più, rispetto al 2012, che passeranno così da 10 a 14. Presenza raddoppiata delle regioni (13 contro 7 del 2012) all’Itb di Berlino. Chiudono le sedi Enit di Zurigo, Praga e Budapest, ma aprono Mumbai, Dubai, Pechino e San Paolo. Per il 2014 si sta valutando l’apertura di nuovi uffici-antenne a Monaco, Istanbul, Città del Messico e Shangai. Ma – al di là delle sorti delle sedi – cosa accade al turista che, dall’estero, decide di scegliere una meta italiana attraverso internet? Anche in questo caso le sorprese non mancano.

La babele dei siti di promozione (che a volte funzionano)
Il portale ufficiale di promozione turistica della capitale per esempio si chiama turismoroma.it. Le più importanti capitali d’Europa ne hanno uno e, se un turista italiano vuole informazioni su Berlino, digita visitberlin.de (e trova anche la versione in italiano). “Visit” e “Berlin” e ha tutte le informazioni sulla città può prenotare direttamente biglietti per musei, teatri e alberghi con pochi semplici passaggi. Invertiamo i ruoli: se è un turista tedesco a digitare visitroma.it viene dirottato su un portale web privato di prenotazioni, tale italyrooms.it di proprietà di un gruppo informatico, che si occupa genericamente di turismo, sanità privata e industria. E un tedesco non può certo sapere che, per avere informazioni turistiche sulla capitale, dovrà invece digitare turismoroma.it.

C’è però visitlazio.com, inaugurato dal governatore Zingaretti a maggio e costato 95mila euro (iva esclusa). Anche in questo caso il dominio era stato già acquistato da un privato: la Regione ha dovuto ricomprarlo, al costo di 3mila euro circa, da una società americana. Un particolare: la stessa società è proprietaria anche del dominio visitlazio.it, per il quale aveva chiesto molto di più: 40mila euro. Il prezzo era troppo alto e s’è ripiegato sul meno costoso visitlazio.com. Ma quale turista cerca la parola Lazio? Quindi il portale della promozione turistica del Lazio (i cui contenuti redazionali sono gestiti internamente che informa su infiorate, cibo ed eventi della costa laziale) rischia di totalizzare ingressi prossimi allo zero per cento. Ma in fondo, prima del brand Visitlazio, la promozione turistica era affidata a un sito chiamato ilmiolazio.it.

Italia.it
Un portale dal nome semplice ed efficace, in realtà, c’è e si chiama italia.it, voluto dal secondo governo Berlusconi nel 2005 e per il quale sono stati stanziati 45 milioni di euro. Doveva essere una vetrina digitale e incrementare i flussi d’ingresso. Il progetto, agli esordi, si chiamava “Scegli Italia”. Il portale però non vede la luce fino al 2007, quando al governo s’insedia Romano Prodi, ma appena messo in rete è bersagliato dagli utenti, che sollevano problemi in ordine alla grafica, all’accessibilità e ai contenuti. Insomma, un disastro. E infatti, viene chiuso un anno dopo. Ma, dopo un contenzioso con la Ibm (che aveva realizzato il sito), costato in tutto 10 milioni di euro, si avvia un nuovo progetto affidato all’Aci. Ulteriore operazione costata quasi 5 milioni di euro. La comunicazione, invece, viene affidata alla Promuovi Italia Spa – ora in liquidazione – per altri 4,5 milioni di euro. In attesa che Italia.it passi alle dirette dipendenze di Enit, c’è un ultimo dettaglio da rilevare: italia.it ha anche una versione cinese. E la data dello sbarco in Cina è importante: 2010, anno dell’Expo di Shangai, partecipazione costata tra 40 e 50 milioni di euro. Anche il sito non è costato poco. Non sono disponibili dati ufficiali, ma si parla di circa 300mila euro per un portale sostanzialmente fermo al 2010 e che, mentre scriviamo, è ancora chiuso per manutenzione.

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