La crisi italiana dipende da più cause. E se le riforme strutturali possono risolvere quelle strettamente legate al nostro sistema produttivo, poco riusciranno a fare per quanto riguarda una situazione economica globale di stagnazione. Ma è soprattutto l’Europa che deve cambiare politica.

di Giancarlo Corsetti (lavoce.info)

Le tre cause dei problemi italiani

Mentre Governo e Parlamento dibattono le riforme necessarie per riportare l’Italia su un sentiero di crescita e contenere l’involuzione della distribuzione, è bene ricordare che i problemi economici italiani negli ultimi anni sono il risultato di (almeno) tre concause distinte: la bassa produttività del sistema italiano, la depressione economica e l’incompiutezza dell’unione monetaria europea. È importante analizzare i loro effetti tenendole separate, perché ciascuna ha cause diverse e può richiedere interventi distinti.
Sul primo punto, la produttività, ci basta rimandare alle analisi dettagliate già discusse da lavoce.info. In sintesi, negli ultimi dieci-quindici anni la crescita del nostro paese è stata una tra le più basse in Europa e nel mondo. La nostra bassa produttività relativa ha radici complesse e dipende da fattori globali, non c’è dubbio, ma la responsabilità del ritardo nel riconoscere il problema e nel capire come intervenire è tuttavia soprattutto italiana.
Sul secondo punto, la situazione economica globale resta stagnante e quella che alcuni sostengono essere una vera e propria depressione coinvolge non solo i paesi dell’euro ma anche economie a cambio flessibile: Stati Uniti, Regno Unito, Svezia e Giappone, solo per citare i principali. Questo punto è cruciale, poiché per tutti i paesi la politica monetaria tradizionale (con i tassi di rifinanziamento a zero) è in pratica fuori uso. L’Italia si trova in una depressione per i problemi strutturali cui abbiamo accennato sopra. Ma vale la pena riflettere sul fatto che anche economie altamente produttive (o per lo meno senza i conclamati problemi italiani) e al di fuori dell’area euro si trovano in una situazione chiaramente difficile.

Il terzo punto è quello su cui vogliamo qui soffermarci. Non si tratta solo di riconoscere che l’Eurozona alla nascita non soddisfaceva affatto i criteri di un’”area valutaria ottimale” per assenza di politiche fiscali e di bilancio a livello federale, mobilità del lavoro limitata, sistema finanziario frammentato, ma anche legislazione non armonizzata, barriere linguistiche, e altro. Si tratta soprattutto di prendere coscienza dei limiti della presunzione che l’Europa sia inerentemente capace di iniziative politiche forti soprattutto nei momenti di crisi. Sarà pur vero che, alla luce dell’esperienza storica, “le crisi rafforzano l’Europa” o che l’”Europa cresce con le crisi”, ma nell’affermazione manca un inciso: “le crisi lasciano sempre un conto”. E il conto, questa volta, è così alto da generare qualche dubbio. L’Europa della moneta è partita con un quadro istituzionale totalmente inadeguato. È stato come costruire case una vicino all’altra senza barriere antincendio e senza assicurazione, con l’idea che, alle prime fiamme, tutti d’amore e d’accordo, i proprietari cooperino a erigere muri e scrivere un contratto assicurativo ex-post, che preveda un risarcimento a quelli con i danni maggiori a carico di tutti gli altri. Ma senza muri e contratti definiti, un incendio diventa quasi inesorabilmente occasione di recriminazioni, accuse reciproche e atteggiamenti opportunistici. A questo stadio della crisi, c’è da sperare che si consolidi una nuova fase politica che prenda atto dei costi fin qui pagati in termini di occupazione, capacità produttiva e obiettivi sociali, e pensi alla riconnessione del tessuto produttivo di un’economia europea con vaste aree in fortissima sofferenza.

Il grafico della crisi

Abbiamo costruito un grafico che mostra la performance del Pil italiano a confronto con quello finlandese (normalizzato a 100 nel primo trimestre 2008). La Finlandia è parte dell’area dell’euro. Rispetto all’Italia, il Pil finlandese si contrae di più all’inizio della crisi, recupera sull’Italia fino al 2012. Da lì in poi, il Pil dei due paesi è di nuovo in discesa. A nostro parere, il grafico solleva un quesito chiaro. O l’andamento del Pil in Finlandia e in Italia è dovuto a fattori della struttura produttiva comuni a entrambi i paesi (difficili però da trovare, se si esclude la vicenda di Nokia, riflesso della crisi delle multinazionali europee dell’high tech di fronte all’espansione di quelle coreane), oppure l’attuale congiuntura in Europa (le cui performace di crescita sono previste ben al di sotto di quelle degli Stati Uniti) è legata a questioni cicliche (o di grande stagnazione) e insufficienza della politica economica di stabilizzazione.
A noi sembra che l’interpretazione giusta sia la seconda.

La conclusione, quindi, non può che essere la seguente: le riforme strutturali attualmente in discussione in Parlamento sono indispensabili per risolvere i problemi italiani — sono necessarie e vanno attuate con intelligenza e urgenza. Ma il loro impatto rischia di essere (nel migliore dei casi) mitigato, se a livello europeo non si procede in tempi stretti ad affrontare i nodi, soprattutto dopo l’ormai conclamata evidenza di spinte deflattive nei paesi periferici dell’Eurozona, Italia inclusa. Non c’è più tempo, né ci sono scuse, per una politica europea impropriamente prudente.

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