Alla fine la legge delega al governo per la riforma del terzo settore è stata presentata in conferenza stampa il 6 agosto, quando era trascorso quasi un mese dall’approvazione al Consiglio dei ministri. Il fatto è passato un po’ in sordina, questa volta: se ne sta parlando in pochi, quasi tutti “addetti ai lavori”. Il Forum del Terzo settore ha fatto sapere, in anteprima rispetto alla diffusione del testo di legge integrale che è soddisfatto del risultato, per l’ampiezza e la completezza del dettato normativo e che è preoccupato solo per gli aspetti legati alla copertura economica non adeguata. Il testo è stato quindi pubblicato su Vita.it, prima ancora che sul sito del Governo.

E, invece, come già altre volte ci è capitato di dire, questa riforma risulterà efficace solo se sarà inclusiva e coraggiosa e se il suo intento riuscirà a essere, non solo a parole, quello di favorire, come nell’articolo 118 ultimo comma della Costituzione inevitabilmente richiamato, tutte le manifestazioni di autonoma iniziativa dei cittadini rivolte al perseguimento dell’interesse generale.

A dire il vero, il tema dell’interesse generale, vero discrimine tra il principio di sussidiarietà nella sua interpretazione autentica e l’uso strumentale che può esserne fatto al fine di appaltare pezzi sempre più consistenti di welfare è stato inserito diffusamente nel testo di legge, e rappresenta, per quanto ci riguarda, insieme con una iniziale enfasi sulle attività praticate dagli enti piuttosto che sulla loro definizione e sul loro status, l’aspetto più innovativo della legge, in linea con le proposte che abbiamo sottoposto al Governo, durante la pur breve consultazione, insieme a Fondaca, la Fondazione per la cittadinanza attiva.

Ma non ci si può limitare a questo. Perché l’interesse generale rappresenti davvero il fulcro della questione, anche nel metodo la riforma andrebbe diffusa, fatta conoscere, affidata ai canali e alle procedure istituzionali corrette con i tempi giusti e, insieme, sostenuta e comunicata alla cosiddetta opinione pubblica, se davvero, come ha detto il ministro Poletti, “questo tema è per noi costitutivo dell’idea stessa di società e di economia e per noi i protagonisti non sono né lo Stato né il mercato, ma i cittadini che si organizzano in comunità”. E quindi con i cittadini, singoli e associati, che non sono rappresentati né rappresentabili dalla pur utile esistenza di organizzazioni di secondo livello, essa andrebbe progettata, analizzata, discussa e verificata, non dimenticando che l’interesse generale non è l’interesse dei donatori, né degli associati, né, tanto meno, dei consiglieri di amministrazione, ma dei destinatari delle attività di un’organizzazione civica.

Se poi di favorire si tratta, a monte deve esservi la scelta di riconoscere l’autonomia dell’iniziativa civica come dato fondante e costituzionale, eliminando gli ostacoli che impediscono tale autonomia, piuttosto che quella di imbrigliare e controllare le organizzazioni sulla base di requisiti che non potranno che essere di forma. Semplificare, in questo caso, non vuol dire accorpare, ridurre il numero dei soggetti, annullare le differenze tra di loro, ma eliminare burocrazia, agevolare procedure, puntare sulla trasparenza, permettere alle organizzazioni più piccole di poter competere con le più grandi, che non sono necessariamente le più virtuose. Per questo consideriamo negativamente la previsione di strumenti che favoriscono l’aggregazione degli enti e aspettiamo di vedere cosa significhi, per esempio, armonizzare le discipline delle organizzazioni di promozione sociale e di quelle di volontariato. Semplificare vuole dire anche distinguere cose che si vogliono tenere insieme per forza, ma che sono diverse, e sulle quali un ragionamento è necessario ma andrebbe fatto a sé, come nel caso delle cosiddette imprese sociali.

E, infine, le due misure più attese: la stabilizzazione e la liberalizzazione del 5×1000 e il Servizio civile. Su queste, in realtà, nessuna buona nuova. Perché rispetto a esse non contano le intenzioni, per quanto lodevoli, ma le coperture economiche. E né per l’uno né per l’altro vi sono investimenti proporzionati all’ambizione dei provvedimenti, specialmente in materia di Servizio civile. Per non parlare del fatto che si riconferma per il 5×1000, rispetto al quale non è esplicitata alcuna volontà di stabilizzazione, quel limite di spesa che tanta indignazione ha suscitato con riguardo alla volontà dei contribuenti, fino a indurre, in passato, a parlare di “scippo di Stato”.

Insomma, per il momento, non ci resta che vigilare, sperando che i passi successivi, il coinvolgimento del Parlamento e, naturalmente, i decreti attuativi, risultino, nelle scelte di metodo, di tempi e di merito, all’altezza delle aspettative riposte e, quindi, necessariamente, più innovativi dell’iter fin qui seguito.

di Anna Lisa Mandorino, Cittadinanzattiva, Vicesegretario generale

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